Recensione di “L’età dell’innocenza” di Edith Wharton
Quel che colpisce maggiormente, in Edith Wharton, è la piena sincerità della scrittura. Nei suoi romanzi, infatti, l’autrice presenta se stessa e le sue convinzioni senza mascheramenti, senza paure. Prima di ogni altra cosa, le sue pagine sono coraggiose, nobili. Ne L’età dell’innocenza, una delle sue opere più famose, l’autrice narra l’amore intensissimo e “impossibile” tra Ellen Olenska e Newland Archer – ostaggi delle rigide e spesso ipocrite convenzioni dell’alta società newyorkese di fine Ottocento di cui fanno parte – e nel farlo si scaglia, colma di sdegno e rabbia, proprio contro quelle regole, e contro la soffocante organizzazione sociale che ne deriva.
Le eroine del romanzo, Ellen e May (la fidanzata “ufficiale” di Newland), opposte per carattere, non certo per coraggio e tenacia, incarnano gli estremi del mondo dorato nel quale si muovono i personaggi dell’opera (e da cui la stessa Wharton proviene); da una parte una donna bellissima, il cui carattere fiero e alieno dai compromessi suscita sospetto, quando non aperta riprovazione e scandalo; dall’altra una giovane altrettanto affascinante, perfettamente inserita nel proprio contesto, ammirata da tutti, pronta a lottare con ogni mezzo per difendere, assieme alla propria rispettabilità, il suo amore, attratto (e spaventato) dallo splendore di Ellen, ma ancor più dal suo insopprimibile desiderio di libertà e dalla volontà di assecondarlo, di favorirlo. In mezzo a loro, il giovane Newland Archer, a tal punto schiavo del proprio luminoso avvenire da non reggere la vertigine di una possibile nuova vita con Ellen.
Raffinato, appassionato, lacerante, L’età dell’innocenza è un’autentica meraviglia letteraria. Non mancate di leggerlo.
P.S. Da questo romanzo Martin Scorsese ha tratto uno dei suoi film più belli. Guardatelo se non l’avete già fatto, ma sempre seguendo la vecchia regola: prima il libro.
Eccovi l’incipit, buona lettura.
Una sera di gennaio, verso l’anno 1870, Cristina Nilsson cantava nel Faust all’Accademia musicale di New York. A quell’epoca si cominciava già a parlare della costruzione, sempre in città ma in una zona lontana, oltre la Quarantanovesima Strada, di un nuovo Teatro dell’Opera, che avrebbe gareggiato con quelli delle grandi capitali europee per il suo costo e splendore; tuttavia il mondo elegante si accontentava ancora di riunirsi, ogni inverno, nei palchi rossi e d’oro un po’ logori della vecchia, accogliente Accademia. I conservatori l’avevano cara perché, piccola e scomoda com’era, non costituiva un richiamo per la «gente nuova» che New York cominciava a temere ma che continuava a sedurla; i sentimentali erano attaccati all’Accademia per i suoi ricordi storici, e gli amanti della musica per la sua eccellente acustica, qualità sempre assai problematica nelle sale costruite per audizioni musicali.