Recensione di “Europe Central” di William T. Vollmann
Storia e invenzione. La puntuale, dettagliata ricostruzione del passato che scolora nello sconfinato orizzonte della fantasia e di nuovo riemerge, in forma di cronaca, o di testimonianza. Il Novecento che William T. Vollmann, uno dei massimi autori americani contemporanei, disegna in Europe Central (vincitore del National Book Award nel 2005) è un delirante viaggio tra nazismo e comunismo, un tragico e grottesco peregrinare lungo il filo rosso che lega due tra le più feroci dittature della storia.
Simboli (e vittime) delle tenebre novecentesche hitlerian-staliniane, sono i singoli, le persone; non la gente comune, morta a milioni, durante il secondo conflitto mondiale, nei più diversi fronti di guerra o lasciata ad attendere la fine nelle case sventrate dai bombardamenti e lungo le strade devastate dai colpi di mortaio e raggelate dai colpi precisissimi dei cecchini; non loro, ma figure in qualche misura eminenti, protagoniste di quegli anni.
Uomini come il generale sovietico Vlasov, come il geniale compositore Sostakovic, come il tenente generale (poi feldmaresciallo, nella devastazione senza speranza di Stalingrado) Friedrich Paulus. Vollmann ne racconta carattere e gesta intrecciando con un virtuosismo di vertiginosa intensità e bellezza resoconti d’archivio e arabeschi di personale inventiva, modellando l’informe materia dell’irrealtà secondo infinite sfumature di significato e oscillando di continuo tra la concretezza, appena sfiorata, di quel che sarebbe potuto accadere, e l’onnipotente deriva del sogno, nella cui dimensione tutto diventa possibile. Così, pagina dopo pagina, Europe Central è romanzo storico e il suo contrario; è opera di fantasia e il suo opposto; è saggio letterario (musicale addirittura, nelle lunghe analisi dedicate al lavoro di Sostakovic) e bizzarria d’autore. Non perdetelo.
Eccovi l’inizio di un capitolo dedicato a Vlasov e di uno che racconta di Paulus. Buona lettura.
Fino al luglio 1942, il generale A.A. Vlasov, comandante della II Armata d’assalto del Fronte del Volchov, fu uno di quegli uomini di marmo sovietici eroicamente impeccabili, con una stella luccicante al centro della fronte, come i simboli di casta delle donne indiane (perché i cecchini tedeschi non la presero di mira?), e tra le mani bianche, la scintillante pistola nera, puntata con gran disinvoltura. Così li ritraggono le vecchie fotografie, con tutti i punti luce sbiancati fino alla più vacua purezza. Ora, però, Vlasov non può più essere annoverato tra questi. Né è ritenuto meritevole di menzione dalla Grande Enciclopedia Sovietica. C’è, invece, una voce rabbiosa sugli “Uomini di Vlasov”. È quel che gli spetta, perché il crimine da lui commesso fu di natura collettiva: organizzò un esercito di traditori per combattere contro la Madrepatria.
Prima Beethoven al grammofono, poi lo schieramento in battaglia della VI Armata; prima un bacio sulla nivea guancia di Coca, poi un colloquio con von Reichenau; prima la Polonia, poi la Francia; prima la Russia, poi tutto il resto. Secondo l’encomio postbellico rivoltogli dal collega Guderian, “era il migliore esempio di brillantissimo ufficiale di stato maggiore quanto a intelligenza, scrupolosità, dedizione al lavoro, originalità e talento, ed è impossibile dubitare della purezza e della nobiltà del suo patriottismo”. La guerra con la Russia sarebbe durata sei settimane. Prima l’estate, poi l’inverno. Il telefono squillò di nuovo. Prima l’Operazione Incantesimo del fuoco, poi i Casi Otto, Verde, Bianco e Giallo, il fumo nero della giustizia storica che si leva a colonne dai villaggi colpiti dai mortai, facce tedesche che ridono dietro le inferriate a rombi di un castello polacco; prima l’Operazione Leone marino, accantonata per la superiorità del nemico, poi l’Operazione Marita, completata e coronata dall’Operazione Mercurio, e infine il foglio fatto di oscurità segnato in tutta la sua ampiezza da una corposa X bianca.