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Una farsa lunga una settimana

Recensione di “L’uomo che fu giovedì” di Gilbert K. Chesterton

G.K. Chesterton, L'uomo che fu giovedì, Bompiani
G.K. Chesterton, L’uomo che fu giovedì, Bompiani

Non è la semplice originalità il tratto caratterizzante la scrittura di Chesterton. Né bastano a spiegare la malia unica esercitata dalle sue opere il gusto per l’iperbole, l’ironia raffinata e spiazzante, l’amore incondizionato per tutto ciò che è grottesco, per quegli aspetti del reale che confinano con l’assurdo. Chesterton adora sovvertire ogni ordine costituito, a partire dai rigidi schemi che definiscono i generi letterari. Così, abilissimo a sparigliare le carte, a confondere il lettore con continui, improvvisi cambi di direzione, questo meraviglioso autore spoglia romanzi e saggi della loro immediata (e prevedibile) riconoscibilità per restituirli al pubblico in una veste nuovissima e infinitamente più ricca.


Riflessioni, analisi, paradossi, accese prese di posizioni polemiche, esplosioni di sarcasmo, come felici e inaspettati incontri fatti a un angolo di strada punteggiano i suoi lavori, dai celebri racconti gialli che hanno per protagonista padre Brown alla dolce favola londinese Il Napoleone di Notting Hill, fino ai suoi studi (su San Tommaso D’Aquino, sulla chiesa cattolica – Chesterton, di famiglia anglicana, si convertì al cattolicesimo nel 1922 – su San Francesco d’Assisi) e a quello che è unanimemente ritenuto il suo capolavoro, L’uomo che fu giovedì, rutilante mystery fantastico che racconta di un fantomatico e segretissimo comitato anarchico la cui direzione è composta da sette membri, che hanno adottato, al posto dei loro veri nomi, quelli dei giorni della settimana.

Alla caccia del loro capo, il terrificante Domenica, si getta Gabriel Syme, agente di Scotland Yard in incognito, che riesce a infiltrarsi nel comitato assumendo l’identità di Giovedì. Ma quel che lo aspetta va al di là di ogni immaginazione…

Leggete L’uomo che fu giovedì, vi innamorerete di Chesterton e finirete per pensarla come il grande scrittore argentino Jorge Luis Borges, che disse: “Forse nessuno scrittore mi ha dato tante ore felici come Chesterton”.

Eccovi l’inizio del romanzo. Buona lettura.

Il sobborgo di Saffron Park sorgeva nella parte di Londra dove tramonta il sole ed era rosso e screziato come un tramonto. Costruito tutto con mattoni rossi, a vederlo da lontano, contro il cielo, appariva fantasioso, bizzarro, e anche a chi si addentrava per le sue strade, offriva la stessa impressione di disordine e difformità. Era opera di uno speculatore edilizio dalle idee originali e non esente da qualità artistiche, che ne definiva l’architettura a volte Queen Elizabeth a volte Queen Anne, come se si trattasse della stessa regina. Se ne parlava, non del tutto a torto, come di una colonia di artisti, anche se nulla vi era mai stato prodotto che si potesse definire in qualsiasi modo un’opera d’arte, ma se la pretesa di essere un centro di vita intellettuale appariva eccessiva, era innegabile che si trattasse, se non altro, di un luogo molto piacevole. Chi vedeva per la prima volta quelle strane case rosse, non poteva non pensare che, per adattarvisi, anche l’aspetto di chi vi abitava doveva essere perlomeno inconsueto, ma se lo si guardava come a un sogno e non come a un trucco scenico, Saffron park diventava non solo bello, ma perfetto.

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