Recensione di “Quello che ti meriti” di Anne Holt
Quello che ti meriti è, con ogni probabilità, il miglior romanzo giallo di Anne Holt. Di certo è la più riuscita delle avventure che hanno per protagonista la coppia formata di Johanne Vik e Yngvar Stubo, detective in forza alla polizia lui, criminologa dal traumatico passato lei.
La scrittura secca, diretta e immediata dell’autrice norvegese avvince il lettore fin dalle primissime pagine e scandisce, tra colpi di scena, momenti di grande drammaticità e pause di introspezione che magistralmente dilatano e contraggono il respiro narrativo dell’opera, l’evolversi di una vicenda complessa e dolorosa, segnata da una febbrile ansia di vendetta che non pare conoscere requie.
Con un coraggio e un’umanità che superano di gran lunga il talento narrativo (e regalano al libro un’autenticità di sentimenti sorprendentemente profonda, che lascia il segno), Anne Holt si misura con temi delicatissimi e disturbanti: l’innocenza dell’infanzia violata dalla cieca brutalità degli adulti e dal loro forsennato egoismo; la tragedia della pedofilia, innominabile “lebbra” dell’anima e del corpo che infetta e corrompe tutto ciò che trova sulla propria strada (i colpevoli, le vittime, la pubblica opinione, sempre pronta a scatenare i propri peggiori istinti in nome della “giustizia”); il disordine spietato del caso, che da un momento all’altro sconvolge il tranquillo fluire di un’esistenza e al termine del suo passaggio non lascia che rovine.
Scrittrice sincera e appassionata, Holt, pur nel pieno rispetto dei canoni del genere, oltrepassa di slancio i confini del mystery e costruisce un intreccio di assoluta originalità; una storia viva, che tocca il cuore e serra lo stomaco.
Non c’è traccia di artificio in quel che racconta, né di formale eleganza fine a se stessa (cosa che sfortunatamente non si può dire degli altri romanzi della serie, entrambi non riusciti: Non deve accadere e La porta chiusa); lo stile, per quanto seducente, è funzionale alla narrazione e resta sempre in secondo piano, perché il mistero che Vik e Stubo devono risolvere, l’orrore che poco alla volta le loro investigazioni portano alla luce, è qualcosa di assolutamente normale, un semplice meccanismo di causa ed effetto; qualcosa che, come un figlio malato, come il tumore che si forma all’interno di un organo, nasce dai vissuti privati di ciascuno dei personaggi coinvolti, dai traumi patiti, dalle ingiustizie subite, dai diritti negati. Primo tra tutti, quello alla felicità.
Eccovi l’inizio del romanzo, che getta immediatamente il lettore nel pieno del dramma: una bambina viene rapita. Buona lettura.
Stava tornando a casa da scuola. Il 17 di maggio era vicino. Sarebbe stata la prima festa nazionale senza la mamma. Il costume tradizionale era troppo corto. La mamma aveva già allungato l’orlo due volte.
Emilie era stata svegliata da un brutto sogno quella notte. Papà dormiva; stringendosi il costume della festa nazionale al corpo, era rimasta ad ascoltarlo russare leggero attraverso la parete. L’orlo rosso si era inerpicato su fino alle ginocchia. Cresceva troppo in fretta. Papà lo diceva spesso: Cresci come i funghi, tesoro mio. Emilie aveva lisciato con la mano il tessuto di lana e cercato di accorciare il collo e ritirare le ginocchia. La nonna diceva sempre: Grete era una spilungona, non c’è da stupirsi se la bambina cresce a vista d’occhio.
A Emilie facevano male le spalle e le cosce a forza di stare sempre china. Era colpa della mamma se era così alta. L’orlo rosso non le arrivava più giù delle ginocchia.
Forse poteva chiedere un costume nuovo.
Lo zaino pesava. Aveva raccolto delle farfare. Il mazzo era così grande che papà avrebbe dovuto cercare un vaso. Gli steli erano lunghi; non come quando, da piccola, staccava solo la testa del fiore, e poi bisognava farla galleggiare in un portauovo.
Non le piaceva camminare da sola. Però la mamma di Marte era passata a prendere Marte e Silje. Dove andavano non glielo avevano detto. Le avevano solo fatto ciao con la mano dal lunotto della macchina.
Le farfare avevano bisogno d’acqua. Alcune le erano già appassite sulle dita. Emilie cercò di non stringere troppo il mazzetto. Un fiore cadde a terra e lei si chinò a raccoglierlo.