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E nell’uomo finì per riflettersi il mostro…

Recensione di “Frankenstein” di Mary Shelley

Mary Shelley, Frankenstein, Mondadori
Mary Shelley, Frankenstein, Mondadori

Una favola gotica, un racconto dell’orrore, un apologo amaro e crepuscolare sulla superbia dell’intelletto umano, sulla sua pretesa di violare, per mezzo del grimaldello delle scoperte scientifiche, i limiti imposti dalla natura e dalle sue leggi, fino ad arrivare al di là dell’immaginabile, alla vittoria sulla morte.


Frankenstein, di Mary Shelley, nato quasi per gioco in una notte di pioggia del 1816 in una villa sul lago di Ginevra, è tra le opere che più hanno colpito l’immaginario collettivo (in gran parte per merito di teatro e cinema, che hanno trovato in questa storia una fonte di ispirazione pressoché inesauribile).

Il mostruoso essere cui il dottor Victor Frankenstein riesce a dare vita, e che immediatamente provoca in lui repulsione, disgusto, perfino un’ombra di rimorso (destinata a crescere a dismisura) per aver osato “sedere alla destra di Dio” e divenir creatore, è divenuto archetipo di ogni disordine, di ogni possibile deviazione; il suo terrificante aspetto, che muove al ribrezzo e alla paura, rende questo povero essere senza colpa, strappato all’oblio eterno da un delirante sogno di onnipotenza e di bellezza, una tragica maschera del male, ma a lui Shelley offre il conforto di una commovente misericordia, di una nobilissima pietà.

La vicenda, infatti, viene narrata attraverso tre differenti punti di vista: si parte con le lettere che l’esploratore Robert Walton invia alla sorella, si prosegue con il racconto del dottor Frankenstein, ritrovato proprio da Walton più morto che vivo nella desolazione del Mar Glaciale Artico e ospitato e rifocillato sulla sua nave, e poi si giunge – in un crescendo che al dramma mescola, con ammirevole virtuosismo e sincera partecipazione, lo straziante dolore dello scienziato, artefice della propria tragedia e della terribile sorte toccata ai suoi affetti più cari, e l’infinita desolazione del mostro – all’esperienza della creatura rievocata in prima persona.

Un essere perduto fin dal suo primo respiro, costretto ad aprire gli occhi alla vita solo per ricevere il disprezzo del mondo, per essere investito dal suo odio feroce, per sperimentarne gli istinti più bassi e vili. Obbligato a vivere di nuovo solo per desiderare la morte con tutte le sue forze; con la medesima sensibilità di un uomo, e con la sua stessa inconsolabile sofferenza.

Racconto di eccezionale potenza espressiva, Frankenstein è un purissimo gioiello letterario. Leggetelo, non lo dimenticherete più.

Adesso lascio la parola all’autrice e ai suoi protagonisti. Prima Walton, poi Victor Frankenstein e infine la creatura. Buona lettura.

 
Alla signora Saville, Inghilterra
 
                                                                                             Pietroburgo, 11 dicembre 17—
 
Ti rallegrerai nell’apprendere che nessun disastro ha accompagnato l’inizio di un’impresa alla quale tu guardavi con tanti cattivi presentimenti. Sono arrivato qui ieri, e la prima preoccupazione è stata rassicurarti, cara sorella, sul fatto che sto bene e che nutro una fiducia crescente verso quanto ho intrapreso.
Sono già molto più a nord di Londra, e mentre cammino per le strade di Pietroburgo sento una fredda brezza di settembre che mi sfiora le guance, mi rinvigorisce i nervi e mi riempie di gioia. Puoi capire questo mio sentimento? Questa brezza, che arriva dalle regioni verso cui sto andando, mi dà un assaggio di quei climi ghiacciati. Incoraggiati da questo vento pieno di promesse, i miei sogni ad occhi aperti diventano più vividi e appassionati. Cerco invano di convincermi che il polo è il regno del gelo e della desolazione: alla mia fantasia si presenta sempre come una regione piena di bellezza e di delizia.
 
Sono d’origine ginevrina, e la mia famiglia è una delle più illustri di quella repubblica. I miei antenati sono stati per molti anni consiglieri e magistrati, e mio padre ha ricoperto diverse cariche con onore e stima di tutti. Era rispettato da quanti lo conoscevano per la sua integrità e la cura instancabile negli affari pubblici. Aveva trascorso gli anni giovanili perennemente impegnato nelle questioni del suo paese; una serie di circostanze gli aveva impedito di sposarsi prima, e fu solo sul declinare della vita che divenne marito e padre di famiglia.
 
«È con notevole difficoltà che ricordo la prima epoca della mia esistenza: tutti gli avvenimenti di quel periodo mi appaiono confusi e indistinti. Una strana molteplicità di sensazioni si impossessò di me, e io vidi, sentii, percepii suoni e odori tutto in una volta; e ci volle in verità molto tempo prima che imparassi a distinguere tra le funzioni dei vari sensi. Gradualmente, ricordo, una luce più forte mi stimolò i nervi, così fui costretto a chiudere gli occhi. L’oscurità scese allora su di me e mi spaventò; ma avevo appena avuto questa sensazione, che riaprii gli occhi (come ora capisco) e la luce vi entrò di nuovo a fiotti. Mi misi a camminare e, credo, scesi le scale; ma a un certo punto vi fu una notevole alterazione nelle mie sensazioni. Prima ero circondato da corpi scuri e opachi, impenetrabili al tatto e alla vista; ma ora mi accorsi che potevo muovermi liberamente, senza incontrare ostacoli che non potessi o superare o evitare. La luce divenne sempre più opprimente e, poiché a camminare il caldo mi stancava, cercai un posto che mi potesse dare un po’ d’ombra. Si trattava della foresta vicino a Ingolstadt; e qui mi sdraiai presso un ruscello per riposarmi dalla fatica, finché non mi sentii tormentato dalla fame e dalla sete. Ciò mi risvegliò dal mio stato di torpore, e mangiai delle bacche che crescevano sugli alberi o per terra, e placai la mia sete al ruscello; infine sdraiandomi, fui sopraffatto dal sonno.
Era buio quando mi svegliai; avevo freddo ed ero anche istintivamente un po’ spaventato a trovarmi così solo. Prima di andarmene dal tuo appartamento, sentendo freddo mi ero coperto con degli abiti, ma insufficienti a ripararmi dalla brina notturna. Ero un povero e infelice derelitto; non sapevo e non capivo niente, ma sentendomi invadere dalla pena mi sedetti e piansi».

3 commenti su “E nell’uomo finì per riflettersi il mostro…”

  1. Buongiorno dottor Consigliere! La stimo e la seguo sempre assiduamente, grazie a lei le mie passeggiate in libreria portano sempre buoni frutti, esco contento senza il dubbio di aver comprato involontariamente l'ultimo libro di Fabio Volo…
    Vorrei chiederle: cosa ne pensa di qualla palla megagalattica e assurda di Moby Dick?
    Attendo con ansia

    Grazie
    ilmagoromano

    PS se ha bisogno mi trova su skype…

  2. Domanda insidiosa, caro ilmagoromano. Su Volo, che non ho letto, non mi pronuncio (mi limito a dire, da scrittore perennemente aspirante, che vorrei avere il suo successo) e provo invece a rispondere su Melville. L'autore è importante, significativo, ma, bisogna confessare, molto difficile da avvicinare (e ancor più da amare). Moby Dick, considerato il suo capolavoro, è un'opera su cui, a mio giudizio, pesa un equivoco: considerata un romanzo d'avventura, ha in realtà il respiro e la profondità del saggio. È un'allegoria potente del rapporto tra uomo e natura, è piena di dotte citazioni (che non è sempre agevole riconoscere) ma il fascino del tema trattato è come trattenuto, imbrigliato dal rigore della scrittura, dalla sistematica catalogazione del sapere (prima di tutto tecnico) riguardante il vivere in mare e la caccia alla balena. Nell'offrire al lettore tutta la sua conoscenza, Mellville procede per accumulo e in più di un'occasione mette a durissima prova la pazienza del lettore, e provoca reazioni simili alla sua (e alla mia, lo confesso. Lessi Moby Dick in giovane età, ma ricordo l'esperienza come una fatica improba). E tuttavia Melville è un magnifico scrittore, e merita almeno una seconda possibilità: mi permetto di suggerire Bartebly lo scrivano. Ma con calma, si prenda tutto il tempo necessario a metabolizzare il drammatico viaggio del capitano Achab e del suo equipaggio.
    Un caro saluto e grazie della sua attenzione.
    Paolo

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