Recensione di “Tess D’Urberville” di Thomas Hardy
L’umanesimo di Thomas Hardy ha la potenza distruttiva della verità. Nella sua opera non c’è spazio per la speranza, né per il sogno, né per qualsiasi altro sentimento che si limiti all’inerzia del desiderio. La sua visione del mondo è immediata, priva di sovrastrutture; non si richiama in alcun modo all’inesplicabile (sia esso il destino oppure Dio, che con imperscrutabile volontà governa il mondo), ma rimane confinata a quella che i filosofi chiamano “conoscenza sensibile”, a ciò che vediamo, tocchiamo, di cui possiamo fare concreta esperienza.
Gli uomini e le donne che popolano i romanzi del grande scrittore inglese non sono altro che l’emergere caotico delle loro pulsioni – il più delle volte egoistiche e malvagie – a fatica frenato dal rigore dell’educazione e dalle convenienze e dai limiti imposti dalla morale vittoriana, spesso talmente ipocrita e crudele da risultare intollerabile, dunque ben peggiore degli errori che si propone di correggere. In questo cupo scenario, in cui a dominare incontrastate sono peccato e colpa, all’uomo resta una sola possibilità per non soccombere, per non perdersi: affidarsi alla propria volontà, avere il coraggio di riconoscersi per quel che è e la capacità di non cedere il passo al preteso diritto del prossimo di disegnare tutti e ciascuno a propria immagine e somiglianza. In un mondo orfano di Dio, bontà, rispetto e giustizia, ci dice Hardy, ci si deve rifugiare nella difesa strenua della propria dignità e nella fedeltà a se stessi; non per salvarsi, ma per vivere senza vergognarsi di averlo fatto.
Ed è proprio così che si comporta la giovane e bellissima Tess, protagonista del romanzo omonimo (probabilmente il più intenso e coinvolgente, ma anche il più spietato, della produzione dello scrittore), ragazza fiera, povera ma di nobili origini, cui la vita, fin dalla fanciullezza, toglie tutto. Dapprima l’innocenza, e nel modo più terribile – Tess, “colpevole” del proprio splendore, osa resistere alle brame di un ragazzo che si è invaghito di lei solo per finire violentata – poi il diritto a essere madre – il figlio frutto di quell’atto spregevole muore poco dopo la nascita e Tess, sola, lo seppellisce nella foresta, sperando invano di poter fare lo stesso anche con il suo passato – e ancora quello a essere donna – quando si innamora, ricambiata, di Angel, giovane idealista e ribelle che sembra somigliarle, tutto naufraga nel momento in cui lui scopre il segreto Tess; è allora che la “morale”, ciò che i più considerano giusto e sbagliato, torna a morderlo cancellando in un sol colpo la sua spavalderia e la sua ansia di libertà. Tess resiste ai colpi come può, senza rinunciare mai a se stessa, ma il prezzo che la vita esige per ogni suo respiro è sempre più alto; e lei lo paga, fino in fondo, a testa alta, disperata eppure indomita.
Dramma di eccezionale profondità, Tess dei d’Urberville è anche un fine romanzo psicologico; nei caratteri dell’eroina e delle figure con cui ha a che fare (la famiglia, presente solo quando deve imporre le proprie decisioni alla figlia e impalpabile in tutti gli altri casi; Alec, il violentatore; Angel, la peggiore delle delusioni) Hardy sottolinea la solitudine cui è condannato l’uomo che sceglie di non arrendersi, di vivere nel pieno rispetto di ciò in cui crede, costi quel che costi. E dal singolo allarga la sua visione al mondo, terra brulla teatro di ogni genere di orrori.
La sua descrizione, volutamente particolareggiata e insistita delle disgrazie di Tess, non lascia spazio a dubbi: soltanto la cieca casualità di una realtà in cui non esiste nessuna giustizia che non sia quella sommamente imperfetta che gli uomini danno a se stessi può “spiegare” (se di spiegazione è il caso di parlare) un destino come quello di Tess, e di moltissimi altri come lei. Non è infatti in alcun modo possibile pensare – e meno che mai credere – che un qualsiasi dio possa accettare quel che un semplice uomo fatica a tollerare.
L’uomo descritto da Hardy è solo nel mondo, è perduto e disperato, ma di questa condizione è consapevole, e ha la possibilità, se vuole, di assumersene la responsabilità; e questo magnifico romanziere non cessa mai di ricordarci che la libertà è, prima di ogni altra cosa, esattamente questo: responsabilità. Ieri come oggi.
Eccovi l’incipit del romanzo (il padre di Tess scopre per caso le nobili ascendenze della sua famiglia, e obbliga la figlia ad andare a cercare i nuovi parenti). Buona lettura.
Una sera della seconda metà di maggio un uomo di mezza età si dirigeva a casa da Shaston al villaggio di Marlott, nella vicina valle di Blakemore o Blackmoor. Il paio di gambe che lo trasportava appariva malsicuro e nel suo passo si manifestava una tendenza che lo faceva piegare alquanto verso il lato sinistro della linea retta. Di quando in quando accennava vigorosamente col capo come a conferma di una sua opinione, sebbene non pensasse a nulla in particolare. Un paniere da uova, vuoto, gli pendeva dal braccio, il pelo del suo cappello era arruffato e un punto appariva del tutto consunto sulla tesa, al posto ove il pollice si posava per toglierlo.
Ben presto si imbatté in un maturo parroco montato su una cavalla grigia il quale, cavalcando, canticchiava un motivo svagato.
– Buona sera a voi, – disse l’uomo dal paniere.
– Buona sera, Sir John, – disse il parroco.
Il viandante, dopo un altro passo o due, si fermò volgendosi indietro.
– Ecco, signore, vi chiedo scusa; ma ci incontrammo l’ultimo giorno di mercato su questa stessa strada a un dipresso alla medesima ora e vi augurai la buona sera, e mi rispondeste «Buona sera, Sir John» proprio come adesso.
– È vero, – disse il parroco.
– E una volta ancora prima, circa un mese fa.
– Può darsi.
– E allora che volete intendere chiamandomi «Sir John» in tali diverse occasioni, quando non sono altro che John Durbeyfield, l’ortolano?
Il parroco avvicinò il cavallo di qualche passo: – Soltanto un capriccio – disse; e, dopo un momento di esitazione, aggiunse: – Fu solo a causa di una scoperta da me fatta poco tempo fa, mentre andavo a caccia di genealogie per la nuova storia della contea. Sono il parroco di Tringham, lo studioso di cose antiche, di Stagfoot Lane. Ignorate davvero, Durbeyfield, di essere il diretto discendente dell’antica e nobile famiglia d’Urberville, che fa risalire le sue origini a Sir Pagan d’Urberville, il famoso cavaliere venuto dalla Normandia con Guglielmo il Conquistatore, come appare dai documenti ufficiali dell’Abbazia di Battle?
– Mai sentito prima, signore!