Recensione di “La montagna incantata” di Thomas Mann
Si fonda sul paradosso “La montagna incantata” di Thomas Mann, uno dei grandi romanzi della storia della letteratura. Un paradosso che sembra avere il proprio centro di gravità nel protagonista del romanzo, il giovane ingegnere Hans Castorp, ma che fin dalle prime pagine si svela nel complessivo disegno dell’opera. Guardando all’uomo nella sua unità di corpo e spirito, Mann compie una scelta ardita: racchiude nel particolarissimo microcosmo di un sanatorio per tubercolotici l’intera esperienza di vita di un singolo.
Parte dalla scoperta della malattia, dalla concretezza, a volte spietata, della scienza medica – Castorp, che al sanatorio va a trovare un cugino malato, e che ha in programma di fermarsi lì per tre settimane soltanto, accusa sintomi sospetti, viene sottoposto a una visita e quasi senza rendersene conto si ritrova degente – e immediatamente dopo si sofferma ad analizzare il contraccolpo psicologico di questo improvviso e drammatico cambiamento – le certezze del giovane, la sua esuberanza, la solida educazione borghese, il futuro già in parte pianificato, ogni cosa, nel suo orizzonte fino a quel momento così limpido, sembra farsi indistinta.
Eppure c’è un mondo ad attendere Castorp all’interno dell’istituto di cura; gli altri pazienti sono altrettante espressioni delle correnti di pensiero in voga e l’incontro con una donna gli spalanca le porte della passione amorosa (con tutto il corollario emotivo di slanci, entusiasmi, frustrazioni, tentennamenti e gelosie); giorno dopo giorno, insomma, quest’uomo, che si credeva pronto a entrare nella vita, sperimenta un nuovo inizio, un radicale ribaltamento di prospettiva, e riprende daccapo a nutrire il suo spirito. È come se la sua data di nascita coincidesse con l’ingresso in sanatorio, perché è qui che l’anima, dimentica delle impressioni accumulate fino a quel momento, si apre, con quella meraviglia immediata e quasi istintuale che nasce dalla conoscenza, al vitale ottimismo razionalistico dell’umanista italiano Settembrini (uno dei ricoverati con cui Castorp lega di più), lotta contro il fascino oscuro che esercitano su di lui le posizioni di un altro paziente, il gesuita Leo Naphta, che al contrario di Settembrini non nutre alcuna fiducia nell’uomo e non vede nella storia né razionalità né progresso, si lascia conquistare dall’ambigua figura di Mynheer Peepekorn, ricchissimo magnate che sembra interessato, più che a recuperare la propria salute, a organizzare raffinate feste e che fin dal suo arrivo attira l’attenzione della signora Chaucat, la donna che Castorp ama di un amore tanto intenso quanto infelice, destinato a non approdare a nulla.
In questa realtà che pare immobile e che invece consuma gli uomini come e più della vita “vera”, Castorp trascorre sette anni. Diviene un uomo nuovo (o forse diviene uomo per la prima volta) solo per perdere definitivamente tutto quel che ha conquistato nell’immenso teatro di guerra del primo conflitto mondiale.
E Mann, che per oltre 600 pagine ha narrato l’evoluzione del suo protagonista, ne ha seguito da vicino ogni cambiamento, che ha messo a disposizione di questo suo ambizioso “studio della vita” tutto il proprio bagaglio di conoscenze scientifiche e filosofiche, all’enormità dell’evento bellico non dedica che qualche riga. Perché la sua opera, uno dei più alti esempi di romanzo di formazione, comincia e finisce con Castorp e nel luogo in cui si definisce e si compie la sua vita. La morte, rappresentata all’inizio del libro come in abbozzo sotto le spoglie della malattia, scorre silenziosa come un fiume sotterraneo lungo tutto il libro (Castorp può sentirla, perfino vederla, toccarla in alcuni momenti, ma rimanendo sempre a distanza di sicurezza) per poi esplodere in tutta la sua virulenza nella cieca mattanza della guerra. Ma in un caso come nell’altro è solo un contraltare, una presenza che è la vita ad imporre, e “La montagna incantata” è un romanzo che ha la vita al proprio centro.
Ora la parola a Thomas Mann. Eccovi l’incipit del romanzo. Buona lettura.
P.S. Suggerisco di acquistare il romanzo edito da Corbaccio, tradotto da Ervino Pocar e arricchito da un’appendice che raccoglie una lezione tenuta dallo stesso Mann agli studenti dell’Università di Princeton; l’argomento della lezione, naturalmente, è La montagna incantata.
Un semplice giovanotto era partito nel colmo dell’estate da Amburgo, sua città natale, per Davos-Platz nel Canton Grigioni. Andava in visita per tre settimane.
Da Amburgo fin lassù però il viaggio è lungo, troppo lungo, a dir il vero, per un soggiorno così breve. Si passa attraverso parecchi paesi, in salita e in discesa, dall’altipiano della Germania meridionale sin giù alle rive del “Mare svevo” e col battello sulle sue onde tramolanti, sopra abissi che un tempo erano considerati inesplorabili.
Di lì il viaggio si fraziona dopo essere progredito comodamente per linee dirette. Si hanno interruzioni ed intoppi. Nei pressi di Rorschach, località in territorio svizzero, ci si affida di nuovo alla ferrovia, ma si arriva soltanto fino a Landquart, una piccola stazione alpina dove si è costretti a cambiare treno. Dopo una sosta piuttosto lunga in quella zona ventosa e poco attraente, si prende una linea a scartamento ridotto, e nel momento in cui la locomotiva, piccola ma, come si vede, dotata d’insolita potenza di trazione, si mette in moto, comincia la parte propriamente avventurosa del viaggio, una salita ripida e costante che pare non debba finire mai. Infatti la stazione di Landquart si trova a un’altezza relativamente modesta; ora, invece, per una via scoscesa tra rocce selvagge, si monta davvero verso l’alta montagna.