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L’amore confinato in un ghetto

Recensione di “Il pozzo della solitudine” di Radclyffe Hall

recensione - Marguerite Radclyffe Hall, Il pozzo della solitudine
Marguerite Radclyffe Hall, Il pozzo della solitudine
 

Sceglie l’elegante veste del romanzo Marguerite Radclyffe Hall (che fin da giovane rinunciò al proprio nome di battesimo e si fece chiamare John) per raccontare, ne Il pozzo della solitudine, il suo lavoro più noto e discusso, pubblicato nel 1928, una dolente storia di emarginazione e sacrificio: quella di Stephen Gordon – con ogni probabilità alter ego dell’autrice – figlia omosessuale di una coppia di aristocratici inglesi.


Nel cadenzato procedere della narrazione, che ha il ritmo e la ricchezza delle grandi opere letterarie ottocentesche, la natura di Stephen emerge per contrasti. Il primo, e più marcato, è proprio quello con gli amatissimi genitori; una coppia “normale”, che gode della benigna considerazione dei vicini. All’ombra del loro affetto (specialmente di quello paterno), la giovane cresce felice, anche se la sua serenità è minata da dubbi e incertezze. Ancora fanciulla, cade preda di una passione che non comprende – ma che pure vive con appassionato ardore – per una delle cameriere in servizio nella tenuta di famiglia, e quando la scopre appartata con un uomo viene colta da un violento accesso nervoso.

Sconvolta dal trauma, terrorizzata da una diversità che pur non riuscendo a compiutamente a definire percepisce con acuta sensibilità, Stephen reagisce legandosi ancora di più al padre, che a differenza della madre sembra capirla e rassicurarla, e riducendo al minimo i contatti con i coetanei, i quali, indovinando in lei qualcosa di insolito, di strano, di sospetto, non esitano a trattarla con diffidenza, e in alcuni casi con aperta avversione (ed ecco il secondo, brutale contrasto). Ma all’appuntamento con la vita, con le sue logiche tanto insensate quanto ferree e con il suo disumano perbenismo, non è possibile sfuggire.

Narrando dell’adolescenza e poi della maturità di Stephen, delle prove cui viene sottoposta, della progressiva presa di coscienza della propria condizione, Radclyffe Hall non si stanca mai di sottolineare la purezza, la dignità e l’onestà dei sentimenti che la sua eroina nutre. L’unità di misura (squisitamente etica) del romanzo, anche nella parte centrale e poi nei densissimi e tragici capitoli conclusivi, continua a riposare sull’ambivalenza dei contrasti; da una parte Stephen, che ama con tutta se stessa e ancora prima del suo diritto all’amore difende la “verità” di quel che prova – il suo affetto nasce incorrotto, al pari di quello di qualsiasi altro essere umano, perché non è l’oggetto cui si rivolge a decidere della sua liceità, e meno che mai possono esserlo l’approvazione o il disprezzo del mondo, e più ancora perché lei semplicemente ama, proprio come prima di lei ha amato sua madre, nello stesso identico modo – dall’altra la società, che nel migliore dei casi ha i tratti ingenui di Martin, il giovane che per primo si innamora di Stephen costringendola ad affrontare, e finalmente accettare, la propria natura, e nel peggiore la durezza implacabile della madre, che nella propria figlia non vede che abiezione, e insieme la meschina viltà di Angela, la donna di cui Stephen si innamora perdutamente, pagando per questa sua bruciante passione un prezzo altissimo.

Alla continua, disperata ricerca di normalità, di quiete, del rispetto che si dovrebbe dare a ogni persona in quanto persona, Stephen Gordon, per natura omosessuale, così come per natura altri nascono eterosessuali (una posizione difficile da accettare ancora oggi e che all’epoca della pubblicazione del romanzo costò all’autrice una denuncia per oscenità e la messa al bando del suo lavoro) lotta con fierezza, con limpida nobiltà d’animo, pur nella piena coscienza dell’inevitabile sconfitta; diventa una scrittrice affermata, conosce e si innamora, ricambiata, della giovane Mary, ma deve comunque arrendersi al suo destino di “diversa”, alla condanna di ciò che è, e dare al proprio amore la sola forma che il mondo è disposto a concederle, quella del sacrificio.

Il pozzo della solitudine è un romanzo intenso, vibrante, avvincente; in alcuni momenti paga ridondanze stilistiche e qualche eccesso retorico, ma si tratta di difetti di poco conto, che non minano la completezza dell’architettura narrativa né pregiudicano la potenza espressiva del testo. Ma quel che più conta è che il libro di Marguerite Radclyffe Hall è una rivendicazione orgogliosa, un atto di coraggio. Una lettura che non lascia indifferenti.

Eccovi l’inizio del romanzo. Buona lettura.

Non molto distante da Upton-on-Severn, e precisamente tra questa località e le colline di Malvern, si stendeva la grande tenuta dei Gordon di Bramley, tutta adorna di boschi, ricca di case coloniche, ben difesa e abbondantemente irrigata da un fiumicello che, biforcandosi proprio nel punto più opportuno, alimentava due grandi laghi.

La villa, in perfetto stile georgiano, tutta in mattoni rossi, con graziose finestre sotto il tetto, esprimeva dignità e fierezza senza ostentazione, sicurezza di sé senza arroganza, quiete senza inerzia ed un signorile riserbo che, per chi ne conosca lo spirito, aggiungeva uno speciale valore all’abitazione. Somigliava, infatti, a certe vezzose donne che, ora vecchie, appartengono ad una generazione passata; donne che nella loro gioventù furono garbatamente appassionate, difficili a conquistarsi, ma che, una volta prese, seppero corrispondere ad ogni attesa. Esse passano, ma le loro dimore restano: e tale era Morton Hall.

Lady Anna Gordon era venuta a Morton Hall, sposa appena ventenne. Era piena di grazia, come solo sanno esserlo le donne irlandesi, e aveva nel suo portamento un non so che di fiero e di sereno, negli occhi l’espressione di una lunga attesa desiderosa e nel corpo tutta un’intensa promessa. Vero tipo di donna perfetta che Iddio creò in piena soddisfazione.

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