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L’eterna vigilanza per la libertà

Recensione de “La società aperta e i suoi nemici” di Karl R. Popper

Karl Popper, La società aperta e i suoi nemici, Armando
Karl Popper, La società aperta e i suoi nemici, Armando

Il più diffuso luogo comune sulla filosofia la qualifica, impietosamente, come disciplina incomprensibile e, quel che è peggio, del tutto inutile. Il fatto che questi giudizi in qualche raro caso risultino inconfutabili (il luogo comune, del resto, è banale ma non necessariamente falso) dimostra soltanto che anche nelle più miopi sentenze si può trovare un fondo di verità e rischia di allontanare schiere di lettori da opere di grande valore e di ancor maggior importanza.


La più significativa di esse è, senza dubbio, La società aperta e i suoi nemici di Karl R. Popper, un voluminoso saggio di filosofia politica pubblicato nel 1945 (e in Italia nel biennio 1973-1974 grazie agli sforzi e all’insistenza di un grande intellettuale, Dario Antiseri) e ancora oggi di estrema attualità. 

Epistemologo di assoluto rigore e teorico della fallibilità della conoscenza umana (secondo uno dei suoi più celebri principi, che dà anche il titolo a uno dei suoi lavori maggiori, la scienza procede per congetture e confutazioni, il che significa che una qualsiasi verità resta tale solo finché una teoria alternativa non la confuta), Popper applica questi fondamenti all’analisi politico-sociale e disegna il solo consesso umano possibile, cioè quella società che, come scrive Antiseri “è aperta a più scelte di valori, a più visioni filosofiche del mondo, a più fedi religiose, a una molteplicità di proposte per la soluzione dei problemi concreti e alla maggior quantità di critica”.

Irriducibile avversario di ogni storicismo – intendendo per storicismo qualsiasi posizione, il più delle volte derivante da una teoria, che considera lo sviluppo della storia dipendente da una ferrea logica di sviluppo – Popper sottopone a una spietata analisi critica gli autori che più hanno contribuito all’affermazione di questa posizione. Per primo Platone, il padre di quel che sarebbe poi diventato lo storicismo vero e proprio (nato filosoficamente in Germania, nella temperie culturale romantica), figura centrale nella cultura occidentale ma anche architetto – nella Repubblica – della forma di società più distante da quella difesa da Popper; la società chiusa, rigida, inflessibile, governata da re filosofi che sembrano essere in grado di fare del bene alla collettività solo spogliandola di ogni possibile autonomia (a partire da quella di pensiero).

Karl R. Popper affronta Platone senza timori reverenziali, e svela il carattere reazionario, violento – totalitario, dichiara lui con impressionante incisività – della sua filosofia politica, cui contrappone il suo modello, certamente più instabile, precario (il prezzo della libertà, non si stanca di ricordarci, è l’eterna vigilanza), ma anche più rispettoso della dignità dell’uomo, di ciascun uomo. Alla critica di Platone segue quella di Hegel e della sua dialettica, che si sviluppa seguendo l’identità tra realtà e razionalità (ciò che è reale è razionale, dice Hegel, e ciò che è razionale è reale, formula che gli consente di dichiarare perfetto lo stato prussiano del suo tempo e di vedere in esso la forma compiuta del percorso dialettico nella storia, l’identità finalmente raggiunta tra razionalità e realtà), e poi di Marx – una delle “vittime” più illustri del veleno filosofico hegeliano – storicista per eccellenza, come dimostra la sua profezia (che il mero scorrere del tempo si è preso la briga di confutare ) sull’inevitabile dittatura del proletariato.

La storia della filosofia che Karl Popper espone nel suo libro è una storia della democrazia, è una difesa strenua di un valore fondamentale, quello della tolleranza, e il linguaggio con cui è espressa, sempre chiaro e scorrevole, consente a tutti di approcciarsi al suo lavoro (certo, è necessario conoscere almeno un po’ di filosofia, ma l’autore non scrive per gli ambienti accademici, è consapevole del valore della sua opera e l’ha costruita per la divulgazione). La società aperta e i suoi nemici è un’opera che si dovrebbe leggere nelle scuole, l’eredità che dovrebbe essere condivisa da ogni uomo libero.

Meglio di me, comunque, il significato de La società aperta e i suoi nemici lo riassume Dario Antiseri al termine della sua introduzione all’edizione italiana. Eccovela, buona lettura.

La società aperta e i suoi nemici è uno dei grandi libri di questo secolo, un classico della democrazia. È una difesa della democrazia dai suoi nemici, nemici quali Platone, Hegel e Marx. E insieme è la riproposta argomentata di una precisa idea di democrazia. E proprio questa idea di democrazia, Popper rammentava ancora nel 1987, è stata compresa appieno solo di rado.

Anche persone colte ripetono spesso che «la democrazia è il governo del popolo» o che «la democrazia è il governo della maggioranza». Queste definizioni, però, hanno per Popper uno scarsissimo valore: una maggioranza potrebbe governare tirannicamente; e un popolo, tutto un popolo, potrebbe dare il suo consenso, un plebiscitario consenso, a una tirannide di tipo nazista, fascista o comunista. Se tutti i cittadini di una nazione dessero il loro pieno consenso a un Hitler o a uno Stalin, avremmo noi forse una democrazia? Il consenso, anche il consenso più massiccio, non è sufficiente, da solo, a qualificare come democratica una società. Quel che occorre è esattamente un’altra cosa: vale a dire il consenso sul dissenso, il consenso sugli uguali diritti di chi la pensa diversamente o, meglio ancora, il consenso sulle regole della società aperta.

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