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Un credo politico riflesso nel destino di un uomo

Recensione di “Martin Eden” di Jack London

recensione Jack London, Martin Eden, Mondadori
Jack London, Martin Eden, Mondadori

L’esaltazione del sogno e la disillusione radicale e senza appello della realtà. È tra questi inconciliabili estremi che si snoda il percorso di vita di Martin Eden, protagonista dell’omonimo romanzo di Jack London. Figura complessa e contraddittoria, questo giovane marinaio (per certi versi alter ego dello scrittore), illetterato o quasi, è a un tempo un convinto e cinico individualista e un uomo generoso e altruista, capace di sentimenti impetuosi e di grandi sacrifici; e London, battagliero autore politico, ne fa un simbolo (seppur tormentato e irrisolto) delle sue idee, del suo credo socialista.


Dopo aver salvato un ragazzo di nome Arthur Morse da una rissa, Martin entra in contatto con un mondo, quello borghese, a lui completamente sconosciuto, e ne resta affascinato. All’infatuazione per l’ambiente, per le comodità e le raffinatezze che a lui sono sempre mancate – e ancor più per quella specie di aura di nobile eleganza che le persone di una determinata classe sociale sembrano naturalmente possedere – contribuisce in larga misura l’attrazione che fin dal primo incontro sente per Ruth, la sorella minore di Arthur.

È sulla spinta di questa sua passione che Martin decide di migliorare la propria condizione. Ritenendosi indegno di Ruth, non solo per la miseria materiale in cui versa ma anche per la sua ignoranza, per la quale prova vergogna, il giovane comincia a leggere e a studiare. Ma già al primo stadio della sua evoluzione – che dovrebbe condurre Martin a diventare una persona migliore di quel che è e che invece si rivelerà un tragico inganno – London elimina dalla vicenda che sta raccontando qualsiasi idealità, ogni apertura alla speranza; il principio di realtà che guida la narrazione svolge il proprio compito con tremenda efficacia presentando cose e persone nella desolazione della loro autentica essenza. Il giovane Martin, infatti, pur senza accorgersene (almeno inizialmente), non ci mette molto a imparare, a raggiungere il livello di Ruth, a discutere con lei da pari a pari; London si limita a descrivere i vari passaggi della sua crescita spirituale, dà al proprio stile la forma neutra della cronaca, del resoconto, ma nel farlo smaschera comunque la finzione che sta a fondamento dell’intera architettura capitalistico-borghese, che egli giudica, con inflessibile severità, come un puro e semplice blocco di potere scandalosamente povero di cultura e interessato soltanto all’accumulo di ricchezza.

Emblema di questo mondo impastato di falsità, opportunismo e volontà di prevaricazione è proprio Ruth, che al principio del romanzo sembra favorire il riscatto di Martin per poi rivelarsi colei che ne distrugge, una volta per tutte, umanità e voglia di vivere. Incapace di comprendere – proprio perché la sua sensibilità, e la cultura che ne è il primo e fondamentale nutrimento, non sono che inganno – il desiderio di Martin di dare un senso al proprio percorso di crescita intellettuale diventando scrittore, la ragazza gli rimprovera la mancanza di un’ambizione concreta, lo stato di profondissima indigenza in cui versa (gli sforzi del ragazzo non approdano a nulla, e London spende pagine e pagine di indimenticabile potenza espressiva per raccontare i meccanismi e le regole, anch’esse irrimediabilmente “borghesi”, cui obbedisce l’ambiente letterario, che con ostinazione respinge tutti i lavori di Martin) e infine lo abbandona.

E quando la fortuna arride all’esausto Martin Eden, cui la vita ha regalato il conforto di un unico amico, il poeta Brissenden, è ormai tardi; niente può più interessarlo, né la consacrazione come scrittore (Martin non scrive più, e gli editori, che sembrano non essersene nemmeno accorti, si contendono quelle stesse opere che fino a poco prima avevano rifiutato con sdegno e sufficienza – ed ecco che il processo industriale di riduzione a merce della cultura, in base al quale si pubblica quel che ha un mercato e null’altro, può dirsi completo), né l’amore – il timido, meschino pentimento di Ruth e il suo tentativo di ricucire con Martin rivelano, una volta ancora, la sua natura arida calcolatrice.

La vita, con le sue leggi che guidano la stragrande maggioranza degli esseri umani (ma non la totalità, come dimostrano le strazianti scelte dell’emarginato Brissenden), non lascia scelta a Martin, che, bersagliato dalla violenza del mondo, può soltanto voltare le spalle e chiudere gli occhi. Non importa quanto forte urli, dentro di lui, l’istinto di sopravvivenza.

Martin Eden è un limpido manifesto politico che ha il respiro di una tragedia individuale; è un libro che coinvolge (e in più di un’occasione travolge) e ferisce; che non smette di commuovere e far riflettere. Eccovi l’inizio, buona lettura.

Uno dei due aprì la porta con una chiave ed entrò, seguito da un giovanotto che si tolse il berretto con gesto imbarazzato. Aveva rozzi vestiti che odoravano di mare ed era chiaramente fuori posto nell’ampio atrio in cui si trovò. Non sapeva che fare del berretto e stava cercando di ficcarselo nella tasca del giaccone quando l’altro glielo prese. Ciò fu fatto con tranquillità e naturalezza e il giovanotto imbarazzato gliene fu grato. «Lui mi capisce», pensava. «E mi darà una mano».

Camminava alle calcagna dell’altro facendo oscillare le spalle e tenendo le gambe involontariamente divaricate, come se il pavimento si alzasse e si abbassasse seguendo le fluttuazioni e gli sbalzi del mare. Le ampie sale parevano troppo strette per la sua andatura dondolante e fra sé e sé egli era terrorizzato al pensiero che le sue larghe spalle potessero urtare contro gli stipiti delle porte o far cadere i minuscoli soprammobili posati sugli scaffali più bassi.

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