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Dall’uomo al boia

Recensione di “In quelle tenebre” di Gitta Sereny

 

Gitta Sereny, In quelle tenebre, Adelphi
Gitta Sereny, In quelle tenebre, Adelphi

 

Franz Stangl è un poliziotto austriacoÈ efficiente, sa cosa significa obbedire a un ordine e cosa è necessario fare per eseguirlo. È rispettoso, disciplinato, lavora con attenzione. Non ha nulla di speciale, è una persona comune, di intelligenza media, con un passato identico a quello di tanti altri, condito da gioie, dolori, sogni e delusioni.


Non ci sarebbe alcuna ragione per ricordarsi di lui se non fosse che Stangl fece carriera, la fece durante gli anni del nazismo, prima occupandosi del programma di “eutanasia” – per dir meglio, di quella che il regime chiamava eutanasia, morte dolce, compassionevole – per persone con handicap, minorati psichici e malati mentali (fu Sovrintendente di Polizia dell’Istituto di Eutanasia del Castello di Harteim dal novembre del 1940 al febbraio del 1942), poi assumendo il comando del campo di sterminio di Sobibor (dal marzo al settembre del 1942) e infine di quello di Treblinka  (dal settembre 1942 all’agosto del 1943). Luoghi in cui oltre un milione di ebrei trovò la morte. Gitta Sereny, giornalista e storica britannica di origini ungheresi, incontrò Stangl nel 1971; lo intervistò nel carcere giudiziario di Düsseldorf, dove l’uomo era detenuto in attesa della sentenza d’appello contro la condanna all’ergastolo che gli era stata inflitta in primo grado. Lo incontrò più volte (70 ore di conversazione tra aprile e giugno del 1971) e raccolse i suoi pensieri, i suoi ricordi, la sua testimonianza, la sua ricostruzione dell’orrore cui prese parte e la sua spiegazione di quel che accadde. Tutto questo materiale, inizialmente pubblicato sul Daily Telegraph Magazine, divenne un intensissimo libro-intervista intitolato In quelle tenebre.

Tra le pagine di questo magistrale lavoro di inchiesta (che oltre alla voce di Stangl raccoglie anche quella di alcuni sopravvissuti) emergono dettagli contrastanti e verità contradditorie; tessere di un puzzle impossibile da completare. Stangl, che all’inizio del libro è esattamente quel che ci aspetta che sia, un prigioniero nazista che, proprio come hanno fatto tanti altri prima di lui, respinge ogni accusa, e soprattutto ogni responsabilità personale – “lui non aveva fatto nulla di male; c’erano sempre stati altri sopra di lui; lui non aveva fatto altro che obbedire agli ordini; non aveva mai fatto male a un solo essere umano. Ciò che era accaduto era una tragedia di guerra, e – purtroppo – le tragedie di guerra c’erano state dappertutto: «Guardi Katyn» disse «guardi Dresda, Hiroshima, e adesso il Vietnam» – quando racconta della sua infanzia e giovinezza è come se tornasse (avendo coscienza di farlo) a un momento nel quale, forse, era possibile salvarsi dal naufragio, dalla tragedia, dalle tenebre. Fiero della sua giovinezza consacrata agli studi professionali («a diciotto anni e mezzo diedi i miei esami e divenni il più giovane maestro-tessitore dell’Austria […]. Guadagnavo duecento scellini al mese e ne davo i quattro quinti ai miei genitori»), l’uomo che sarebbe divenuto un boia si commuove ricordando quegli anni, «l’epoca più felice della mia vita»,  poi, un passo alla volta, è come se la sua umanità lo abbandonasse, si staccasse da lui come pelle morta. Stangl, probabilmente obbedendo a un riflesso condizionato di autodifesa, narra il suo ingresso in polizia e tutto quel che ne consegue (la carriera, le promozioni che sempre più coincidono con l’organizzazione delle attività di sterminio) con una sorta di impotente fatalismo, ma neppure lui sembra credere fino in fondo a quel che dice e le domande, civili ma incalzanti, penetranti, precise di Gitta Sereny, minano alle fondamenta le sue argomentazioni.

Quel che rimane, alla fine, dopo le parole di Stangl, le terribili testimonianze dei sopravvissuti, le riflessioni dell’autrice, i suoi documentati resoconti sulla storia e le finalità dei campi di sterminio e sul loro funzionamento, è la realtà innegabile e allo stesso tempo incomprensibile dell’Olocausto; forse, ci dice Sereny, non riusciremo mai a capire fino in fondo come possa un uomo trasformarsi nel proprio contrario, rinunciare a tutto ciò che lo rende tale; nonostante ciò ci sono altre cose che sappiamo, e che non possiamo, né dobbiamo tacere. Sappiamo i nomi dei colpevoli, dei mandanti e degli assassini, e sappiamo che le responsabilità sono non soltanto di coloro che hanno materialmente agito, ma anche di coloro che tali azioni hanno permesso; di chi, pur potendo parlare, ha preferito tacere. Come la Chiesa Cattolica, allora guidata da Pio XII, sulla cui posizione l’autrice interroga Kazimierz Papée, ambasciatore di Polonia presso la Santa Sede dal 14 luglio 1939 al dicembre 1958.  “Mi raccontò in dettaglio”, scrive “ i passi che egli fece nei tragici anni 1940-44 per informare la Santa Sede della situazione in Polonia; le sue numerose udienze dal Papa, e le sue continue comunicazioni, per lettera e di persona, ai tre cardinali della Segreteria di Stato del Vaticano (il Segretario di Stato cardinale Maglioni; il pro-Segretario cardinale Montini – attuale Papa Paolo VI – e il cardinale Tardini) […]. Alla fine del nostro colloquio, domandai a Kazimiers Papée se egli pensava che il Papa avrebbe potuto fare di più per fermare lo sterminio degli ebrei e dei cristiani in Polonia. «Si trovava in una posizione assai difficile», disse Monsieur Papée in tono depresso, «era circondato dai fascisti – e questa è una cosa da tener presente – aveva assai poca libertà di movimento». (Un anno dopo, da Londra, telefonai a Monsieur Papée per un’altra domanda su un punto che mi aveva turbata: «Lei crede», dissi, «che vi sia una possibilità – anche la più remota – che il Papa non abbia visto i documenti che lei mandava o consegnava alla Segreteria di Stato? È possibile che loro lo proteggessero da questa consapevolezza?». Vi fu una lunga pausa di riflessione. Poi egli rispose con lo stesso tono angosciato col quale aveva risposto ad alcune delle mie domande originarie: «Non è possibile. Il Santo Padre vedeva tutte le comunicazioni di questo genere: non sarebbe stato possibile sottrargliele»”.

Eccovi l’inizio del libro. Buona lettura.

La prima volta che incontrai Franz Stangl fu la mattina del venerdì 2 aprile 1971, in una piccola stanza che veniva normalmente usata come sala d’attesa per gli avvocati in visita nel carcere giudiziario di Düsseldorf. La sua stanza era delle stesse dimensioni delle celle della parte moderna della prigione, il blocco nel quale era detenuto Stangl. V’erano le stesse finestre con le sbarre, la stessa squallida vista sul cortile interno, e lo stesso tipo di arredamento strettamente funzionale, in pino rossiccio. Era un locale impersonale, neutro, privo di qualsiasi cosa potesse gratificare l’occhio, ma nello stesso tempo non v’era nulla che potesse distrarre né l’occhio né la mente; il posto giusto per le settanta ore così particolari che avrei passato con quest’uomo così particolare.

Quando, il 22 dicembre 1970, il tribunale di Düsseldorf aveva condannato Stangl alla prigione a vita, per complicità nell’uccisione di novecentomila persone durante il suo servizio come comandante di Treblinka, il ‘cacciatore di nazisti’ Simon Wiesenthal, che aveva avuto parte nella cattura, disse ai giornalisti che la condanna di Stangl da parte dei tedeschi era importante almeno quanto quella di Adolf Eichmann da parte degli israeliani. «Il processo Stangl» disse «costituisce per la Germania Occidentale il più importante processo penale del secolo. Se non avessi fatto altro nella mia vita che quello di catturare quest’uomo malvagio, non sarei vissuto invano».

Era difficile associare l’uomo tranquillo e cortese che il direttore della prigione mi presento quella mattina con questa definizione di Wiesenthal.

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