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Non c’è nulla di elementare in una deduzione

Recensione di “Uno studio in rosso” di Arthur Conan Doyle

Arthur Conan Doyle, Uno studio in rosso, Mondadori
Arthur Conan Doyle, Uno studio in rosso, Mondadori

È singolare che Sherlock Holmes, l’investigatore letterario più noto in assoluto, riconosciuto modello per un gran numero di autori, che a lui si sono ispirati per dare vita ai propri eroi, debba la sua immensa fama principalmente a una caratteristica: l’originalità. Holmes, infatti, non assomiglia a nessun altro detective privato, e, quel che più conta, nessuno dei suoi moltissimi colleghi può vantare significative affinità con lui; nel tratteggiarne carattere e soprattutto personalità, insomma, il suo creatore, Arthur Conan Doyle, ha compiuto un piccolo miracolo: ha dissodato un terreno vergine e dopo averlo fatto è riuscito a mantenerlo inviolato. Chiunque, dopo Holmes, volesse somigliare a Holmes, perderebbe immediatamente la propria personalità per ridursi a nient’altro che a una sbiadita copia dell’originale.

Certo, il metodo deduttivo da lui applicato per risolvere omicidi, misteri e intrighi che Scotland Yard (e in modo particolare il pur volonteroso ispettore Lestrade) non è in grado di affrontare, è, nella sostanza, identico a quello di tanti altri investigatori – in estrema sintesi: un fatto delittuoso, una serie di indizi collegati ad esso, una loro ragionata analisi che porta all’elaborazione di ipotesi, la verifica di queste ultime, il progressivo avvicinamento alla verità e infine la soluzione del caso – ma Holmes riesce a portarlo a grado di perfezione ineguagliato. Merito della sua non comune intelligenza, dell’eccezionale capacità di osservazione, della pratica, affinata in lunghi anni di esercizio della professione, e più di tutto di un bagaglio di conoscenze tecniche costruito con rigore e protetto con ferrea disciplina. È il sapere di Sherlock Holmes, più precisamente il suo essere così particolare e funzionale ai suoi interessi, a renderlo unico, come detective e come uomo.

In Uno studio in rosso, primo dei quattro romanzi di Conan Doyle che hanno come protagonisti Holmes e il medico John H. Watson (suo coinquilino, nonché improvvisato biografo), ecco come come vengono presentate le conoscenze del detective:

“La sua ignoranza era notevole quanto la sua cultura. In fatto di letteratura contemporanea, di filosofia e di politica, sembrava che Holmes sapesse poco o nulla. Una volta mi accadde di citare Thomas Carlyle. Mi chiese nel modo più ingenuo chi era e cosa avesse fatto. Ma la mia meraviglia giunse al colmo quando scoprii casualmente che ignorava la teoria di Copernico nonché la struttura del sistema solare. Il fatto che un essere civile, in questo nostro XIX secolo, non sapesse che la Terra gira attorno al Sole mi pareva così straordinario che stentavo a capacitarmene.

 Sembra sbalordito – disse Holmes, e sorrise osservando la mia espressione. – Ora che mi ha insegnato queste cose, farò del mio meglio per dimenticarle.

– Per dimenticarle?

– Vede – mi spiegò – secondo me, il cervello d’un uomo, in origine, è come una soffitta vuota: la si deve riempire con mobilia di nostra scelta. L’incauto vi immagazzina tutte le mercanzie che si trova tra i piedi: le nozioni che potrebbero essergli utili finiscono col non trovare più il loro posto, o, nella migliore delle ipotesi, si mescolano e si confondono con una quantità d’altre cose, cosicché diviene assai difficile reperirle. Viceversa, lo studioso accorto seleziona accuratamente ciò che immagazzina nella soffitta del suo cervello. Ci mette soltanto gli strumenti che possono aiutarlo nel lavoro, ma di quelli tiene un vasto assortimento, e si sforza di sistemarli nell’ordine più perfetto. È un errore illudersi che quella stanzetta abbia le pareti elastiche e possa ampliarsi a dismisura […]. Quindi, quasi tutte le cognizioni che possedeva avevano per lui una specifica utilità. Enumerai mentalmente i vari punti su cui si era dimostrato eccezionalmente informato. Arrivai al punto di prendere una matita e annotarli […]. L’elenco si presentava come segue:

Cognizioni di Sherlock Holmes

1.            Letteratura: zero

2.            Filosofia: zero

3.            Astronomia: zero

4.            Politica: scarse

5.            Botanica: variabili. Conosce a fondo caratteristiche e applicazioni della belladonna, dell’oppio e dei veleni in generale. Non sa nulla di giardinaggio e orticoltura.

6.            Geologia. Pratiche, ma limitate. Riconosce a prima vita le diverse qualità di terra. Dopo una passeggiata, mi ha mostrato delle macchie sui suoi calzoni indicando, in base al loro colore e alla loro consistenza, in quale parte di Londra aveva raccolto il fango dell’una o dell’altra macchia.

7.            Chimica: profonde.

8.            Anatomia: esatte, ma poco sistematiche.

9.            Letteratura sensazionale: illimitate. A quanto pare, conosce i particolari di tutti gli orrori perpetrati nel nostro secolo.

10.            Suona bene il violino.

11.            È abilissimo nel pugilato e nella scherma.

12.            È dotato di buone nozioni pratiche in fatto di legge inglese”.

Arthur Conan Doyle, medico di professione e scrittore dilettante, con geniale intuizione mette in bocca a Holmes la sua teoria sul funzionamento del cervello e sui meccanismi della memoria, poi si affida al suo (notevole) talento di narratore. Costruisce intrecci complessi e coinvolgenti, dà vita a caratterizzazioni felicissime (tra le altre, la signora Watson, proprietaria dei locali al 221 B di Baker Street occupati da Holmes e Watson, il già citato ispettore Lestrade, il “Napoleone del crimine” Moriarty, il grande nemico di Holmes, per molti versi il suo alter ego perverso, intelligentemente sfruttato più come presenza, come ombra, che come reale antagonista), regala emozioni e suggestioni quando descrive Londra e la campagna inglese, teatro di gran parte delle avventure del detective, e infine, dopo aver condotto il lettore fin nel cuore del mistero, lo risolve chiarendone tutti i dettagli, e così facendo utilizza i successi di Holmes a sostegno della correttezza delle sue convinzioni scientifiche. Forte delle sue conoscenze, della sua intelligenza e della sua esperienza, Holmes applica il metodo deduttivo e giunge sempre alla verità; e non potrebbe essere altrimenti, perché non c’è niente di empirico nel suo modo di procedere.

Una volta eliminato l’impossibile, spiega il detective al suo amico, quel che resta, per quanto improbabile, deve essere vero. Questo principio fondante della deduzione è una legge della natura, al pari di quella newtoniana sulla gravitazione universale (che peraltro Holmes ignora), e come tale non può fallire. Ma questo non significa che la sua applicazione sia semplice, o peggio elementare. Non c’è nulla di elementare in quel che fa Holmes, e lui non si stanca di ripeterlo a Watson; il fatto che il mistero, qualsiasi mistero, una volta svelato sembri un insieme di fatti qualsiasi, una banalità, non deve ingannare. Sherlock Holmes spiega tutto perché lui può farlo; ha l’abilità e le conoscenze per riuscirci. Agli altri, Watson in testa, non rimane che ascoltare ammirati e, nel suo caso, documentare. A beneficio di generazioni di lettori.

Eccovi l’incipit di Uno studio in rosso. Buona lettura.

DAI RICORDI DEL DOTTOR JOHN H. WATSON

EX UFFICIALE MEDICO DELL’ESERCITO BRITANNICO

Nell’anno 1878 presi la laurea in medicina all’Università di Londra e mi trasferii a Netley per seguire un corso prescritto per i medici militari. Completai i miei studi a Netley, fui destinato al 5° Reggimento Fucilieri Northumberland. A quell’epoca, il reggimento era di stanza in India e, prima ancora che io l’avessi raggiunto, era scoppiata la guerra afgana. Sbarcato a Bombay, seppi che le truppe, avanzate attraverso i passi montani, si trovavano già in territorio nemico. Partii ugualmente per raggiungerle, con molti altri ufficiali che si trovavano nella mia stessa situazione, e riuscii ad arrivare sano e salvo a Candahar, dove trovai il mio reggimento e assunsi le mie nuove funzioni.

La campagna fruttò onori e promozioni a molti, ma a me portò soltanto guai e disavventure. Fui trasferito dalla mia brigata al Reggimento del Berkshire con il quale partecipai alla fatale battaglia di Maiwand. Là fui colpito alla spalla da un proiettile che mi fratturò l’osso sfiorando l’arteria succlavia. Sarei caduto nelle mani dei feroci Ghazi se non fosse stato per la devozione e il coraggio di Murray, il mio attendente, che mi caricò su un cavallo e riuscì a riportarmi in salvo entro le linee britanniche.

Dolorante, e indebolito per le fatiche e le privazioni, fui trasferito, con un treno ospedale carico di feriti, all’ospedale di Peshawar. Ero già in via di guarigione e avevo il permesso di passeggiare per le camerate, e persino di uscire sulla veranda a prendere un po’ di sole, quando fui colpito da un attacco di gastroenterite, la malattia sempre in agguato in quelle terre. Per mesi e mesi si disperò di salvarmi, e quando, finalmente, mi riebbi ed entrai in convalescenza ero così debole ed emaciato che i sanitari decisero di mandarmi in Inghilterra, il più presto possibile. Di conseguenza, dovetti partire con la nave Orontes, e sbarcai un mese dopo a Portsmouth, con la salute irrimediabilmente rovinata, ma col permesso del paterno governo di dedicare i nove mesi successivi al tentativo di migliorarla.

Non avevo parenti in Inghilterra, e, quindi, ero libero come l’aria… o meglio, libero quanto lo può essere un uomo che dispone di undici scellini e sei pence al giorno.

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