Recensione di “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” di Carlo Emilio Gadda
Se lo stile letterario di Carlo Emilio Gadda avesse un corrispettivo filosofico, lo si potrebbe qualificare come una sorta di felice “hegelismo senza Hegel”. A differenza, infatti, del pensatore di Stoccarda, i cui tentativi di seguire e spiegare le determinazioni successive del concetto (che in ultima analisi si rivela essere il senso della storia, la verità che si compie) si sono concretizzati in una messe di opere caratterizzate da un linguaggio inutilmente involuto, retorico e oscuro (specchio di un sistema di pensiero fondamentalmente insincero, che purtroppo ha avuto molta più influenza di quanto avrebbe meritato), Gadda ha risolto l’irriducibile complessità della vita rinunciando a spiegarla ma in compenso descrivendola in tutti i suoi aspetti attraverso un linguaggio evocativo e fiammeggiante, ricchissimo di soluzioni originali, nel quale memorie dialettali si mescolano a invenzioni e neologismi; il suo registro espressivo è sorprendente, di rara efficacia e ironico fino alla ferocia.
Gadda – unico nel panorama letterario italiano – utilizza parole e sintassi con piena libertà, quasi ci giocasse; ma la spensieratezza dei suoi equilibrismi grammaticali è solo apparente; l’autore, infatti, non sperimenta alla cieca, conosce alla perfezione la lingua ed è proprio per questa ragione che può permettersi di portarla oltre i propri confini (non a caso, Carlo Emilio Gadda è uno dei pochissimi autori nel panorama letterario mondiale a essere praticamente intraducibile; proposti in altre lingue, i suoi romanzi vengono spogliati del loro tesoro più grande, la capacità di guardare alla lingua italiana da una prospettiva “impossibile”, e di ribaltare, o meglio ancora di ignorare, qualsiasi regola, qualsiasi codice, qualsiasi struttura, qualsiasi riferimento per dar vita a una realtà più ricca e più grande).
Tuttavia, non è a un puro formalismo che la prosa di Gadda approda. È vero che nei suoi romanzi non è la trama in senso stretto la cosa più importante, ma va detto che non è neppure un ingrediente da cui si possa prescindere. Per spiazzante, “folle” e immaginifica che sia, infatti, la scrittura di questo geniale autore rimane sempre fedele a un disciplinatissimo realismo. In uno dei suoi lavori più noti, per esempio, lo splendido Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Gadda esercita il proprio straripante talento misurandosi con il giallo, ma utilizza il fatto di sangue al centro della narrazione (l’omicidio della moglie di un uomo facoltoso, consumato in un palazzo non lontano dal Colosseo nel quale poco tempo prima erano stati rubati dei gioielli appartenenti a un’anziana donna) sia per ribadire le proprie convinzioni politiche radicalmente antifasciste – il libro, pubblicato per la prima volta a puntate sulla rivista Letteratura nel 1946, è ambientato nel 1927, e con compiaciuta perfidia l’autore non solo sbeffeggia il Duce affibbiandogli, tra molti altri, l’irriguardoso nomignolo di Predappiofesso, ma nel scegliere un fatto di sangue, e il disordine, la paura e l’instabilità che inevitabilmente porta con sé, colpisce al cuore uno dei simboli centrali della retorica mussoliniana, quello che si richiama all’ordine, alla sicurezza, alla garanzia di protezione per tutti i cittadini – sia per presentare al lettore la sua visione del mondo e degli uomini.
Così, mentre le indagini del commissario della Squadra Mobile della Polizia Francesco Ingravallo cercano di far luce sul delitto, al centro del racconto sfilano personaggi che incarnano i peggiori vizi umani (dagli appartenenti agli eleganti ambienti borghesi, che nascondono sempre più di quanto siano disposti a mostrare, fino agli uomini e alle donne del proletariato romano, abbruttiti dalle difficili condizioni di vita, e ancora ladri, delinquenti della peggiore risma, ruffiani, prostitute); Gadda li racconta per quello che sono, senza finzioni e senza risparmiare nulla, ma anche senza dimenticare che la vita è un inestricabile “pasticciaccio” di dramma e commedia, di dolore e serenità; un pasticcio in cui dietro l’angolo della più terribile delle tragedie può trovare posto uno scoppio di riso liberatorio.
Quer pasticciaccio brutto de via Merulana è uno dei grandi capolavori della letteratura italiana. Leggetelo, imparerete che non sempre, in un giallo, la cosa importante è smascherare il colpevole.
Eccovi l’incipit, buona lettura.
Tutti ormai lo chiamavano don Ciccio. Era il dottor Francesco Ingravallo comandato alla mobile: uno dei più giovani e, non si sa perché, invidiati funzionari della sezione investigativa: ubiquo ai casi, onnipresente su gli affari tenebrosi. Di statura media, piuttosto rotondo della persona, o forse un po’ tozzo, di capelli neri e folti e cresputi che gli venivan fuori dalla metà della fronte quasi a riparargli i due bernoccoli metafisici dal bel sole d’Italia, aveva un’aria un po’ assonnata, un’andatura greve e dinoccolata, un fare un po’ tonto come di persona che combatte con laboriosa digestione: vestito come il magro onorario statale gli permetteva di vestirsi, e con una o due macchioline d’olio sul bavero, quasi impercettibili però, quasi un ricordo della collina molisana. Una certa praticaccia del mondo, del nostro mondo detto «latino», benché giovine (trentacinquenne), doveva di certo avercela: una certa conoscenza degli uomini: e anche delle donne. La sua padrona di casa lo venerava, a non dire adorava: in ragione di e nonostante quell’arruffio strano d’ogni trillo e d’ogni busta gialla imprevista, e di chiamate notturne e d’ore senza pace, che formavano il tormentato contesto del di lui tempo.