Recensione di “Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay” di Michael Chabon
Racconto di un sogno di riscatto e di giustizia divenuto giorno dopo giorno realtà; commovente apologo sull’amicizia; omaggio sincero ed entusiasta allo sconfinato universo dei fumetti e al manipolo di giovani appassionati che con il loro lavoro e la loro determinazione regalarono alla letteratura disegnata uno strabiliante successo di pubblico, e allo stesso tempo riflessione – tanto profonda quanto rassegnata – sulle radici dell’odio e della discriminazione, sentimenti capaci di germogliare nell’animo umano con impressionante naturalezza: Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay, romanzo di Michael Chabon vincitore nel 2001 del Premio Pulitzer per la narrativa, proprio come i fumetti di cui parla è tutto questo, un insieme composito eppure armonioso, un fitto intreccio di temi differenti, un puzzle che nel suo lento comporsi rivela, oltre alla bellezza del disegno complessivo, l’esattezza e la cura di ogni singolo dettaglio. Impeccabile ricostruzione d’ambiente e d’atmosfera (è senza dubbio questo il principale merito del romanzo), l’opera di Chabon racconta la storia di due cugini, Josef Kavalier e Samuel Klayman; il primo, dopo essere fuggito da Praga in seguito all’invasione nazista, arriva a New York, dove incontra il cugino. L’intesa tra loro è immediata; Sammy coltiva sogni di gloria, vuole sfondare, diventare ricco e famoso, e Joe ha talento per il disegno; per loro la strada è come se fosse già tracciata, una strada che, per quanto accidentata e irta di ostacoli possa essere, conduce a una meta ben precisa, i fumetti.
Per raccontare delle avventure (e delle disavventure) di Josef e Sammy, e dei moltissimi altri personaggi che i due incontrano lungo il loro cammino, Chabon adotta un registro narrativo costantemente sospeso tra luce e oscurità. E malgrado non si possa negare che per gran parte del romanzo (che senza difficoltà riesce a tenere avvinto il lettore per ben 800 pagine) si respiri la brezza lieve dei toni da commedia, in cui a dominare è, se non la piena spensieratezza, una sorta di facile noncuranza, un ottimismo ostinato che neppure gli avvenimenti più tragici sembrano in grado di scalfire (ne sono significativo esempio le prime pagine del libro, di squisita fattura, dedicate ai piani discussi dagli ebrei di Praga per evitare che l’esercito invasore mettesse le mani su uno dei simboli più preziosi della loro cultura, il Golem, il gigante plasmato con il fango del fiume Moldava da Rabbi Loew), è altrettanto vero che lo scrittore statunitense sta sempre attento a non trasformare il suo romanzo in farsa.
Nel dedicare un’opera letteraria così corposa ai fumetti e alla loro età dell’oro, Chabon mostra grande rispetto e considerazione; sceglie di narrare con leggerezza, ma non dimentica, né sottovaluta, gli aspetti drammatici presenti in ogni accadimento. Così, sia la scalata al successo di Kavalier e Clay – i cui sforzi per dar vita a un supereroe, l’Escapista, capace di contrastare le armate hitleriane, richiamano quelli di pionieri come Joe Schuster, Jerry Siegel e Stan Lee – sia i paralleli avvenimenti delle loro vite private, hanno l’inconfondibile sapore agrodolce della realtà, mescolano incessantemente lacrime e sorrisi. I fumetti, chiarisce Chabon, saranno anche una lettura d’evasione, ma questo non dà a nessuno il diritto di considerarli con sufficienza, né di negarne l’intrinseco valore artistico e culturale.
Muovendosi con magistrale abilità tra invenzione e aderenza ai fatti storici, Michael Chabon costruisce un grande romanzo (nel quale si prende la libertà di ospitare celebrità “in carne e ossa” del calibro di Salvador Dalì e Orson Welles) che si legge d’un fiato come fosse un’avventura; segue da vicino il realizzarsi di un sogno, condividendo con i suoi eroi gli entusiasmi e le paure che suscita, e attraverso quel che sembra lo strumento ideale per evadere dalla vita reale, il fumetto, è esattamente la realtà quella che racconta; la realtà della vita quotidiana di due ragazzi geniali, che combattono per ciò che desiderano e per quello in cui credono, cadono e si rialzano; la realtà della guerra, che colpisce tutti; e ancora la realtà (forse la più dura da accettare) del loro essere se stessi, delle loro debolezze, della generosità, delle invidie, delle gelosie e delle meschinità; e dell’amore, così intenso da travolgere ogni cosa al suo passaggio.
Ecco l’inizio del romanzo. Buona lettura.
Negli ultimi anni, parlando dall’alto della propria autorità, durante un’intervista o una riunione di anziani cultori di storie a fumetti, Sam Clay amava affermare, a proposito della più famosa creazione sua e di Joe Kavalier, che un tempo, quando era ragazzo, isolato, legato mani e piedi in quel contenitore a tenuta d’aria noto come Brooklyn, New York, aveva avuto sogni ricorrenti su Harry Houdini. «Per me, Clark Kent in una cabina del telefono e Houdini in una cassa da imballaggio erano un’unica, identica cosa» discettava al WonderCon, all’Angouleme, o parlando col direttore di The Comic Journal. «Dal momento in cui si esce, non si è più la stessa persona di quando si era entrati. Il primo spettacolo di magia di Houdini, infatti, quando era appena agli inizi, si chiamava Metamorphosis. Non si trattava solo di riuscire a liberarsi. Alla liberazione corrispondeva una trasformazione». La verità era che, da ragazzo, Sammy aveva avuto, a dir tanto, un interesse occasionale per Harry Houdini e le sue leggendarie imprese; i suoi veri eroi erano Nicola Tesla, Louis Pasteur e Jack London. Eppure, questo racconto del suo ruolo, il ruolo della sua immaginazione, nella nascita dell’Escapista, aveva, come le sue migliori affabulazioni, il sapore della verità. I suoi sogni giovanili avevano avuto un carattere alla Houdini; erano stati i sogni di una crisalide che lotta nel buio del bozzolo e impazzisce per la voglia di luce e di aria.
Houdini era un idolo per lo spettatore semplice, i ragazzi di città e gli ebrei; Samuel Louis Klayman era tutte e tre queste cose.