Recensione di “Cuore di cane” di Michail Bulgakov
E se il ritratto più somigliante di un uomo fosse quello di un animale? È quel che ci si chiede, tra riso, sorpresa e sgomento leggendo il bellissimo Cuore di cane di Michail Afanes’evic Bugakov, uno dei più grandi scrittori russi del Novecento. Critico intransigente dell’organizzazione politico-sociale sovietica (e malgrado ciò, almeno nei primissimi anni della carriera, benvoluto da Stalin), Bulgakov affida le proprie prese di posizione di maggior peso alla satira.
La sua ironia dissacrante, cinica, voluttuosamente irriguardosa, colpisce con violenza e sembra non risparmiare niente e nessuno, ma nel profondo lascia intravedere la drammatica solitudine dell’autore, prigioniero (fisicamente e ancor più culturalmente) di un sistema di potere che non gli appartiene. Ma non è la denuncia di una condizione personale, per quanto difficile possa essere, quella che interessa Bulgakov, bensì la riflessione su temi di interesse generale; in Cuore di cane, per esempio, l’argomento centrale del romanzo riguarda potenzialità e limiti della scienza (non va dimenticato che Bulgakov era medico, e che subito dopo la laurea, conseguita a Kiev, per qualche anno esercitò la professione), e lo scrittore decide di narrarlo da un insolito punto di vista. Protagonista dell’opera, infatti, è Pallino, un cane randagio prossimo a morire in un’oscura stradina non lontana dal centro di Mosca per colpa del cuoco della mensa impiegati al Consiglio Centrale dell’Economia Nazionale (un proletario! si lamenta il cane, piazzando la prima stoccata a Stalin, al suo regime e alla retorica su cui si regge), che gli ha rovesciato addosso dell’acqua bollente.
Salvato da uno scienziato, il professor Preobrazenskij, Pallino si ritrova d’improvviso con un tetto sopra la testa, ben nutrito e accudito in ogni modo, e ha così la possibilità di assistere agli esperimenti del suo nuovo padrone, impegnato in una complessa ricerca sul ringiovanimento del corpo umano. Bulgakov, che nella prima parte del romanzo assume il punto di vista dell’animale (muovendosi dall’esposizione in prima persona alla descrizione dell’ambiente circostante, narrato sempre attraverso gli occhi, e la mente, di Pallino), sceglie una scrittura nervosa e frenetica, affastella disordinatamente eventi e dialoghi e così facendo simboleggia lo smarrimento del cane – e dell’uomo comune – tanto di fronte alla realtà (quella incomprensibile e brutale del socialismo reale), quanto nei confronti del sapere scientifico. Ma anche nel bel mezzo del caos – creato ad arte, con funambolica genialità espressiva – Bulgakov tiene per mano il lettore e indica con estrema chiarezza il proprio pensiero; quando, per esempio, viene chiesto a Preobrazenskij come sia riuscito a farsi ascoltare da un cane ribelle come Pallino, egli, in aperta sfida alla pratica inumana del terrore staliniano, dichiara: “Con la dolcezza. È il solo sistema possibile con un essere vivente, qualunque sia il suo livello di sviluppo. L’ho affermato, lo affermo e lo affermerò sempre. Quelli si sbagliano se pensano che il terrore serva a qualcosa. No! Il terrore non serve a nulla, né con i bianchi, né con i rossi e neanche con i gialli. Il terrore blocca il sistema nervoso”.
Ma per quanto dolce sia, il professor Preobrazenskij è prima di tutto uno scienziato, e un brutto giorno decide di tentare un esperimento impossibile; anestetizza Pallino e gli impianta testicoli e ipofisi di un uomo morto da poco, un poco di buono ucciso da una coltellata in una bettola della capitale. La nuova creatura, all’inizio né cane né uomo, poco alla volta si trasforma in un essere umano (impara a camminare eretto, perde coda, artigli e peli e comincia a parlare); è a questo punto che nasce uno dei personaggi letterari più indovinati di sempre (a partire dal nome), Poligaf Poligrafovic Pallini (è così che si fa registrare all’angrafe), che, trascinato dal pensiero e dagli istinti dell’uomo che era stato prima di morire, cui si aggiunge l’irrequieta natura dell’animale, ancora presente malgrado l’operazione l’abbia quasi completamente soffocata, si abbandona a ogni sorta di eccessi suscitando scandalo tra i suoi simili (le persone), senza peraltro riuscire a trattenersi dal dar la caccia ai gatti. Così, il sogno di un uomo nuovo accarezzato da Preobrazenskij (proprio come quello di una società nuova nato dalla rivoluzione d’ottobre) fallisce su tutta la linea. Pallino torna a essere un cane e riprende a guardare il mondo nello stesso modo in cui lo guardava (e giudicava) all’inizio del romanzo, con rude diffidenza.
Eccovi l’inizio di questo irresistibile romanzo, opera di altissimo valore letterario. Una trasparente metafora politico-sociale carica di graffiante sarcasmo, per molti versi attualissima ancora oggi.
«Uuuuhhh! Guardatemi sto morendo. La bufera mi ulula il de profundis nel portone e io ululo con le. È fatta. Sono fregato. Un delinquente col berretto sporco, il cuoco della mensa impiegati al Consiglio Centrale dell’Economia Nazionale, m’ha rovesciato addosso dell’acqua bollente e m’ha bruciato il fianco sinistro. Che mascalzone! E sì che è anche un proletario! Oh signore, come mi fa male! Quella maledetta acqua bollente m’ha pelato fino all’osso. Adesso urlo, ma a che mi serve urlare?
Che noia gli davo? Mica mando sul lastrico il Consiglio dell’Economia Nazionale, se frugo un po’ col muso nella pattumiera, no? Che tirchio, quella carogna! Se vi capita l’occasione, date un po’ un’occhiata al suo grugno: è più largo che lungo. Un ladro con la faccia di bronzo. Ah, cari miei! A mezzogiorno, quel porco col berretto m’ha riempito d’acqua bollente, e adesso è buio, saranno pressappoco le quattro del pomeriggio, se si giudica dall’odore di cipolla che viene dalla caserma dei pompieri sulla Precist’enka. Come sapete, i pompieri a cena mangiano kasa, una schifezza che è pure peggio dei funghi. Del resto, alcuni cani amici miei raccontano che in via Neglìnnaja, al ristorante-bar, il menù del giorno comprende funghi con salsa piccante a tre rubli e settantacinque copechi la porzione. Sarà anche un piatto per intenditori, ma per me sarebbe come leccare una galoscia… Uuuuhhh!…
Il fianco mi fa un male del diavolo e vedo assai chiaramente come finirà la mia carriera: domani mi verranno le piaghe e io con che cosa le curerò, secondo voi? D’estate uno se ne può andare a Sokol’niki. Lì l’erba è speciale, davvero buona, e, a parte questo, ci si abbuffa gratis di culi di salame, – i cittadini ci buttano un sacco di cartacce così unte e bisunte che uno le può anche leccare. E se non fosse per qualche figlio di buona donna che si sbraca sul prato e al chiaro di luna si mette a cantare Celeste Aida in maniera da farti torcere le budella, sarebbe niente male. Ma adesso, dove si può andare? Vi hanno mai colpito con uno stivale? A me sì. Vi siete mai beccati una mattonata tra le costole? Io, di mattonate ne ho rimediate abbastanza. Ho provato di tutto, accetto la mia sorte, e se ora piango, è soltanto per il dolore fisico e per il freddo, perché il mio spirito non si è ancora spento… è tenace, lo spirito di un cane».