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Il dolore dell’uomo e lo splendore indifferente della natura

Recensione di “Canne al vento” di Grazia Deledda

Grazia Deledda, Canne al vento, BUR
 

L’emozione che suscita la scrittura di Grazia Deledda si deve in massima parte alla sua autenticità, al suo talento purissimo privo di qualsiasi affettazione, di qualsiasi maniera.

Nella sua prosa, che al pari di tutto ciò che è vivo sembra possedere un respiro proprio, riecheggiano la divorante passione per la letteratura e il suo fiero carattere di donna – costretta a un ruolo di secondo piano dall’arretratezza delle condizioni sociali e culturali del suo tempo ma non per questo disposta, o peggio rassegnata, ad abbandonare se stessa – l’eterodossia confusa eppure straordinariamente feconda delle sue letture (che comprendono, tra le altre, la Bibbia, i grandi autori russi dell’Ottocento, Dostoevskij in testa, e le opere di D’Annunzio e Fogazzaro), e infine l’amore per la natia Sardegna, luogo di arcaica bellezza, di primitivo splendore, incontaminato e acceso di mille colori; quasi un riflesso dell’assoluta perfezione dell’Eden ma nello stesso tempo anche terra dura, spesso inospitale, indifferente alle fatiche cui costringe gli uomini, che hanno l’obbligo di domarla, o almeno di provarci, per poter trarre da essa il necessario sostentamento, perfino spietata nel rigoglioso esplodere della natura.

Costruito attorno a tutti questi temi, Canne al vento, il capolavoro di Grazia Deledda, è un romanzo intenso, penetrante, che richiama la tradizione verista nelle cadenze lente, e in alcuni momenti profondamente sofferte, della narrazione; è un’opera complessa, sfaccettata, attraversata da un dolore sottile e universale, che come un destino comune sembra appartenere agli uomini e alle cose; è un avventuroso studio psicologico e insieme il ritratto di una società (delle sue tradizioni, delle antiche certezze sulle quali si regge, delle superstizioni che a un tempo la animano e la condannano a una cieca fedeltà a se stessa, al proprio immutabile presente) e il ricordo, nostalgico e commosso, di esperienze vissute.

La vicenda, che si snoda tra le infinite profondità del mondo interiore dei protagonisti, cui fa da contraltare la meraviglia del territorio sardo, dipinto con una sensibilità e una finezza di toni che paiono anticipare l’affascinante realismo magico di certa letteratura sudamericana novecentesca, racconta dell’anziano contadino Efix, uomo semplice, robusto come lo è la terra di cui è figlio, saggio nello stesso modo in cui lo è natura, che conosce alla perfezione, ma oppresso dal ricordo di una vecchia colpa, che cerca di espiare conducendo una vita irreprensibile al servizio delle sue “padrone”, le sorelle Pintor. Come Efix, anche queste tre donne, seppur nobili di nascita, appartengono a un mondo che, nella sua ingannevole immobilità, è prossimo a scomparire; e al pari di Efix, anche le sorelle Pintor vivono con profondo disagio tempi che non riescono più a comprendere. Ridotte in miseria, proprietarie soltanto di un piccolo podere (di cui Efix è il solerte custode), queste donne trascorrono i loro giorni nella rievocazione, spesso amara, del passato. Finché a travolgere le loro vite, e naturalmente anche quella di Efix, non giunge proprio uno scampolo di quel passato, quello peggiore, il più esecrato; il nipote Giacinto, figlio di una quarta sorella fuggita dalla Sardegna (e dalla rigidissima educazione familiare) attratta dall’irresistibile canto di sirena della vita e della libertà. Giacinto, simbolo dei “tempi nuovi” e del loro caotico imporsi, sconvolgerà tutti gli equilibri, senza peraltro riuscire a stabilirne uno nuovo. Il suo arrivo è l’onda di marea che spazza via definitivamente l’ordine antico custodito con gelosa determinazione dalle zie ma che dopo il suo passaggio non lascia che devastazione e dolore. Quel dolore che, come già accennato, segna la vita degli eroi di Grazia Deledda, e attraverso loro, di tutti noi.

Eccovi l’inizio del romanzo. Buona lettura

Tutto il giorno Efix, il servo delle dame Pintor, aveva lavorato a rinforzare l’argine primitivo da lui stesso costruito un po’ per volta a furia d’anni e di fatica, giù in fondo al poderetto lungo il fiume: e al cader della sera contemplava la sua opera dall’alto, seduto davanti alla capanna sotto il ciglione glauco di canne a mezza costa sulla bianca Collina dei Colombi.

Eccolo tutto ai suoi piedi, silenzioso e qua e là scintillante d’acque nel crepuscolo, il poderetto che Efix considera più suo che delle sue padrone: trent’anni di possesso e di lavoro lo han fatto ben suo e le siepi di fichi d’india che lo chiudono dall’alto in basso come due muri grigi serpeggianti di scaglione in scaglione dalla collina al fiume gli sembrano i confini del mondo.

Il servo non guardava al di là del poderetto anche perché i terreni da una parte e dell’altra erano un tempo appartenuti alle sue padrone: perché ricordare il passato? Rimpianto inutile. Meglio pensare all’avvenire e sperare nell’aiuto di Dio.

E Dio prometteva una buona annata, o perlomeno faceva ricoprir di fiori tutti i mandorli e i peschi della valle; e questa fra due file di colline bianche, con lontananze cerule di monti a occidente e di mare a oriente, coperta di vegetazione primaverile, d’acque, di macchie, di fiori, dava l’idea di una culla gonfia di veli verdi, di nastri azzurri, col mormorio del fiume monotono come quello di un bambino che s’addormentava.

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