Recensione di “I quasi adatti” di Peter Høeg
Ben prima che la letteratura scandinava, trainata dal colossale successo fatto registrare dalla trilogia di Stieg Larsson, diventasse un fenomeno di massa, un autore danese si era guadagnato la ribalta del palcoscenico letterario internazionale, Peter Høeg.
Raggiunta la notorietà grazie alla pubblicazione di un thriller fascinoso e insolito, ambientato tra Copenhagen la Groenlandia e intitolato Il senso di Smilla per la neve , recensito qui (la cui protagonista, Smilla Jaspersen, anticipa in molti tratti la ribelle e tormentata Lisbeth Salander creata da Larsson), Høeg ripropone i suoi primi lavori – Il senso di Smilla per la neve è, in ordine cronologico, il suo terzo romanzo – e contemporaneamente si dedica alla stesura di un altro lavoro, I quasi adatti, che rappresenta la vetta della sua produzione.
Allo stesso tempo romanzo di formazione e inquietante giallo psicologico, I quasi adatti, proprio come Il senso di Smilla per la neve, conquista, oltre che per l’intreccio, l’abilità narrativa e la costruzione dei personaggi, per una sorta di “trattenuta disperazione”, di incombente catastrofe, che Høeg, come un chimico alle prese con la creazione di una nuova formula di fondamentale importanza, distilla riga dopo riga con raffinata maestria. I quasi adatti di cui parla il suo libro sono alunni di una scuola sperimentale di Copenhagen, ragazzini che, a causa di vissuti traumatici che hanno sconvolto il loro equilibrio, hanno problemi a relazionarsi con gli altri (e con se stessi), soffrono di gravi disordini affettivi, hanno difficoltà nella percezione delle cose e delle persone e nella comprensione – dunque anche nella gestione – del tempo.
La scrittura di Høeg, secca, incisiva, chirurgica (ma capace, quando è necessario, di aprirsi a una sorprendente ricchezza di accenti e sfumature), contrappone la meccanica efficienza del sistema rieducativo in vigore nell’istituto alla caotica ma feconda indeterminatezza del mondo interiore dei ragazzi, cui l’autore guarda con compassione, comprensione e sincero affetto. Così, nel progressivo svilupparsi della vicenda, raccontata seguendo due piani narrativi distinti, quello del quattordicenne Peter, uno dei tanti “ospiti” di quella scuola, e quello dello stesso Peter ormai adulto e padre di una bambina, che rievoca per la figlia una delle esperienze cruciali della sua vita nella speranza che possa aiutarla nel lungo cammino “alla scoperta del mondo”, Høeg si concentra sulla coraggiosa lotta del ragazzino protagonista, e della sua migliore amica, Katarina, per difendere se stesso, la propria autonomia di pensiero e perfino la sofferenza che gli abita dentro (perché anch’essa contribuisce a fare di lui quel che è), dalla brutale spersonalizzazione prevista dal programma pedagogico adottato dagli insegnanti.
Nel tentativo di resistere alle continue pressioni di docenti e ambiente, all’insinuarsi progressivo della “riabilitazione”, del “reinserimento”, alla normalizzazione, Peter poco alla volta comprende di dover dare un senso nuovo alla propria battaglia, di dover superare se stesso, ed è allora che gli sembra di scorgere, al di là dell’ordine perfetto delle aule e degli altri spazi comuni e oltre il rispetto rigoroso della disciplina e delle regole, un piano più generale, un disegno complessivo, qualcosa di oscuro e pericoloso che riguarda tutti i ragazzi. Scoprire in cosa esattamente consista quel piano, come si evolva quel disegno, diventa il suo scopo, il suo e quello di Katarina; così i due amici impegnano tutte le loro forze in un’indagine che è, insieme, una speranza di salvezza per ciascuno di loro e una mano tesa a tutti gli altri.
Un’indagine che, nell’ipnotica prosa di Høeg, che in un costante crescendo di tensione si fa sempre più serrata e, come un gorgo, trascina il lettore con sé, diviene metafora esplicita della bellezza terribile dell’adolescenza, dei suoi abissi senza fondo e dell’abbacinante splendore della sua generosità.
I quasi adatti è un romanzo intensissimo e originale. Un romanzo che tiene con il fiato sospeso e commuove, che racconta una delle età più belle e difficili della vita con acuta sensibilità e profondo rispetto. Un romanzo difficile da dimenticare.
Eccovi l’inizio. Buona lettura.
Che cos’è il tempo? Salivamo cinque piani verso la luce e ci distribuivamo in tredici file rivolti verso il dio che apre le porte del mattino. Poi c’era una pausa, quindi arrivava Biehl.
Perché quella pausa? A un’esplicita domanda sulle sue pause rivoltagli da una delle ragazze brave, Biehl sul momento era rimasto in silenzio. Poi lui, che non diceva mai “io” di se stesso, aveva detto, lentamente e con grande serietà, come stupito della domanda, e forse anche della propria risposta: «Quando parlo dovete ascoltare soprattutto le mie pause. Dicono più delle mie parole». Questo valeva anche per l’intervallo fra il momento in cui nella sala scendeva il silenzio assoluto e quello in cui lui entrava e saliva sul suo pulpito. Una pausa eloquente, per dirla con parole sue. Poi veniva intonato un canto mattutino seguito da una pausa, Biehl recitava un padrenostro, pausa, un breve salmo, pausa, un canto patriottico, pausa e fine; a quel punto lasciava la sala come era arrivato, rapido, quasi di corsa. Quali erano i sentimenti in sala mentre ciò avveniva? Nessun sentimento in particolare, dissi io, era di primo mattino e la gente era stanca, ma non potevamo finirla lì?, mi stava venendo il mal di testa, ed era tardi, la campanella aveva già suonato, indicai l’ora. Non ancora, disse lei, voleva farmi notare un’altra cosa, cioè il rapporto con il dolore. Nel corso di un esperimento, quando sopravveniva un dolore, come ora il mal di testa, non bisognava mai interrompere e abbandonarlo. Bisognava invece dirigere su di esso la giusta luce dell’attenzione. Disse così. La luce dell’attenzione. Così ci volgemmo verso la paura.