Recensione di “Utilitarismo” di John Stuart Mill
La massima felicità del maggior numero possibile delle persone è il solo criterio valido in base al quale qualificare un’azione come moralmente corretta o meno. Questo il principio che sta a fondamento di uno dei più significativi saggi filosofici del XIX secolo: Utilitarismo, di John Stuart Mill.
Seguace di Jeremy Bentham, il maggior teorico della dottrina morale utilitaristica, Mill in questo suo agile lavoro ne riprende i temi fondamentali – l’equazione, peraltro lontanissima da qualsiasi edonismo di bassa lega, tra piacere e felicità; il legame, quasi di causa-effetto, tra promozione dell’interesse individuale e realizzazione di quello collettivo; la ferma convinzione che compito di un pensiero etico-filosofico degno di questo nome sia occuparsi degli atti e della loro bontà o malvagità e in nessun caso del carattere degli individui – ma li sottopone a profonda rielaborazione, ripensandoli e riformulandoli, quasi che il suo tempo avesse bisogno di un pensiero nuovo, originale, ben distinto da quello del passato, per quanto importante esso sia.
Non a caso il grande filosofo britannico comincia il suo lavoro denunciando la situazione di grave arretratezza in cui si trova l’etica, a suo dire orfana di un principio fondamentale universalmente accettato. E così consuma la prima rottura con Bentham, cui pure deve l’intera architettura del suo sistema. A ben vedere, però, questa frattura è solo apparente, perché Mill si affretta a dichiarare che un primo principio esiste, ed è per l’appunto quello utilitarista; quel che ancora manca è l’esplicito riconoscimento, da parte di tutte le scuole filosofiche che si occupano di morale (il che significa da parte dei pensatori avversari di Mill), del primato di quel principio. Non ci può essere etica autenticamente valida, afferma Mill, che non si richiami all’utilitarismo, perché è soltanto attraverso questa dottrina che è possibile stabilire un reale criterio di giudizio delle azioni umane (quello, già citato, della massima felicità universale procurata dai nostri atti).
Sarebbe ingenuo e superficiale giudicare questa conclusione arrogante, parziale, o non sufficientemente fondata; Mill, infatti, è un fine conoscitore dell’animo umano e sa perfettamente come il primo pericolo da evitare, per chiunque si accosti a una materia complessa e sfuggente come l’etica con l’intenzione di sistematizzarla, sia confidare nelle risorse affascinanti ma impalpabili della metafisica, affidarsi a verità precostituite (come per esempio quella che vuole l’uomo intrinsecamente buono), partire da presupposti accettati ma non dimostrati; ed è proprio per non cadere in queste trappole che si richiama con così tanta forza a un primo principio vero, quello dell’utilitarismo mutuato sì da Bentham, ma allo stesso tempo reso unico da una chiara teoria della finalità degli atti compiuti dagli uomini (che per Bentham coincide semplicemente con la ricerca del piacere individuale, che in modo quasi naturale si armonizza con il perseguimento di altri piaceri e con la realizzazione della felicità collettiva, mentre per Mill deve essere in qualche modo “diretta dall’esterno”, obbedire a un ordine morale stabilito da “uomini di spessore superiore alla media”, perché se fosse lasciata a se stessa inevitabilmente naufragherebbe negli inconciliabili egoismi personali) e fortificato da una difesa strenua, che passa in rassegna le principali obiezioni formulate fino ad allora contro la teoria e le confuta. L’utilitarismo condanna il piacere? Falso, casomai lo ricerca, ma deve essere chiaro che quando si parla di piacere si intende il piacere nella sua forma più elevata, e lo si intende indirizzato all’umanità, non al singolo. Il piacere, dunque, può anche essere sacrificio di sé, se questo sacrificio conduce al bene comune. Obiezione contraria alla prima: l’utilitarismo identifica il piacere con l’utile ed è perciò una filosofia che promuove gli istinti più bassi dell’uomo. Il piacere, risponde Mill, non è qualcosa di spregevole in sé, poi introduce una distinzione qualitativa tra i piaceri e spiega come l’utilitarismo insegni a ricercare solo quelli più nobili. A chi afferma che la felicità non è possibile Mill replica che la sola ragione per cui si crede che la felicità non esista è che la si descrive in modo irrealistico; si dia un contenuto realealla felicità ed essa stessa diverrà reale, mentre a chi taccia la sua dottrina di opportunismo risponde che l’utilitarismo è l’esatto opposto della convenienza individuale (che è quel che comunemente si intende per opportunismo). Sgombrato il campo dagli ostacoli, la trattazione prende il via; Mill argomenta con precisione e acutezza, rigore e limpida conseguenzialità. Con lui, l’etica si avvia a diventare scienza.
Nobile tentativo di costruire una morale capace di abbracciare l’intera umanità, Utilitarismo è un’opera centrale nella storia del pensiero occidentale; la sua grande chiarezza espositiva permette anche a chi non è avvezzo al linguaggio filosofico di leggerla, comprenderla, e di confrontarsi con i suoi numerosi spunti di riflessione, ancor oggi estremamente fecondi.
Eccovi l’inizio del saggio. Buona lettura.
Fra le circostanze che costituiscono la situazione attuale della conoscenza umana, poche ne esistono che rispondano meno a quanto ci si sarebbe potuti aspettare e che siano più tipiche delle condizioni primitive in cui la speculazione sugli argomenti di maggior importanza indugia ancora, quanto il poco progresso compiuto nel risolvere la controversia sul criterio di ciò che è moralmente giusto e di ciò che è moralmente non giusto.