Recensione di “Qualcun altro” di Tonino Benacquista
Un dono che chiunque scriva per professione desidererebbe avere è senza alcun dubbio la capacità di trattare temi complessi con semplicità (che è cosa ben diversa dal semplicismo, infallibile cartina di tornasole della mediocrità, non solo letteraria), quando occorre perfino con leggerezza, mescolando a riflessioni profonde e a volte scomode arguzie brillanti e trovate originali che sappiano incuriosire, sorprendere e divertire il lettore senza mai smettere stimolarlo, chiamarlo al confronto, all’esercizio del proprio giudizio critico.
Tonino Benacquista, autore francese (è scrittore e sceneggiatore) di gran classe sfortunatamente ancora poco noto al pubblico di casa nostra, di questo dono ha fatto arte; lo ha coltivato, disciplinato affinato e infine messo al servizio di un talento narrativo non comune, nutrito di un’esuberanza creativa degna della più sincera ammirazione e di uno stile di folgorante bellezza (e, si badi, alieno da qualsiasi scontato autocompiacimento, dunque pienamente maturo). Tra i suoi numerosi romanzi – dodici dal 1985 oggi – particolare attenzione merita Qualcun altro (del 2001, pubblicato da Einaudi), saggio filosofico o trattato di psicologia – se ci si limita a considerare l’argomento – condotto con il ritmo incalzante, che in più di un’occasione si fa irresistibile, della commedia e allo stesso tempo attraversato dalle cupe atmosfere del dramma; sfiorato dall’inquietante incertezza del mystery e infine assopito nel rassicurante abbraccio della verità, o del suo riflesso.
In Qualcun altro Benacquista si misura con un tema delicatissimo e di assoluto fascino, quello dell’identità, cui è inestricabilmente legato il suo opposto: la perdita (consapevole) di sé e la sua riconquista sotto una nuova veste. Protagonisti del romanzo sono Thierry Blin e Nicolas Gredzinski, quarantenni insoddisfatti della propria vita che sognano, come tutti, di essere qualcun altro, o forse solo un se stesso diverso, più audace, più intelligente, più spiritoso, più uomo.
Al termine di una partita a tennis, i due, seduti al tavolo di un bar, quasi senza rendersene conto si ritrovano coinvolti in una discussione sul senso del tempo (nella quale si accavallano analisi del passato, delle scelte compiute, delle decisioni prese e della loro irreversibilità; certezze, spesso ben poco soddisfacenti, del presente e imprevedibilità, eccitante ma anche spaventosa, del domani) che poco alla volta prende in considerazione la possibilità di vivere quello stesso tempo oggetto delle loro riflessioni in modo completamente diverso da come è stato vissuto fino a quel momento. Come? Reinventandosi. Ricostruendo dal nulla le rispettive esistenze come se tutto cominciasse in quel momento. Thierry è convinto che si possa fare, che sia difficile, certo, ma che valga la pena provare; anzi, crede che questo sia l’unico modo per restituire valore e interesse a una vita che ormai fatica a non guardare con disprezzo; Nicolas invece è assalito da ogni sorta di dubbi, di paure, di angosce, le stesse che lo accompagnano da quando era bambino e che lo hanno sempre paralizzato, costretto a scendere a patti con i suoi desideri, le sue ambizioni; a conti fatti, a vivere una vita non sua. Non riuscendo ad accordarsi, i due decidono di scommettere; si danno tre anni di tempo, al termine dei quali si ritroveranno (l’appuntamento viene fissato in quello stesso bar teatro del confronto); chi sarà riuscito a diventare un altro e a non farsi riconoscere dall’“avversario” avrà vinto e potrà chiedere, in pagamento della scommessa, qualsiasi cosa all’altro.
Da questo momento in avanti, Benacquista segue le parallele vicende dei suoi protagonisti, che diventano simbolo e metafora di due modi antitetici di intendere il cambiamento: da una parte c’è Thierry, che, convinto che a definire la nostra identità siano le concrete condizioni nelle quali quotidianamente viviamo, persegue una personale rivoluzione copernicana e abbandona tutto ciò che aveva a che fare con la propria vecchia esistenza (il lavoro, gli amici, l’amore, perfino l’aspetto) per costruirne un’altra dal nulla; dall’altra c’è Nicolas, che con allarmata meraviglia scopre la vertigine liberatoria dell’alcol e, come uno spettatore a teatro, assiste allo sbocciare del proprio nuovo io. Un io che pur somigliando all’immagine di sé che ha sempre popolato i suoi sogni, non gli appartiene più di quanto gli appartenga la balbettante personalità che lo ha sempre caratterizzato, e che lui non ha mai sentito come sua.
Ricchissimo nelle sfumature linguistiche, incalzante nei dialoghi, elegante nelle descrizioni d’ambiente e impeccabile nell’approfondimento psicologico dei personaggi, Qualcun altro è un piccolo gioiello letterario. Un romanzo che si divora come fosse un’avventura e che, una volta concluso, non smette di parlare, di interrogare. Proprio come fanno i classici della letteratura.
P.S. Devo la lettura di questo libro al mio caro amico Marco Consoli, valente giornalista esperto, tra le altre cose, di cinema, nuovi media, effetti visivi e videogiochi. Benacquista è solo uno dei tanti favori che mi ha fatto; probabilmente non il più importante, di certo uno dei più graditi.
Eccovi l’incipit, buona lettura.
Per la prima volta dopo molto tempo, quell’anno Thierry Blin decise di tornare a giocare a tennis, al solo scopo di confrontarsi con ciò che era stato: un giocatore onesto che, pur non essendosi mai qualificato in una graduatoria ufficiale, aveva messo in crisi più di un presuntuoso. Poi però qualcosa si era inceppato, i suoi colpi avevano perso vigore, e il semplice fatto di correre dietro una pallina gialla non gli veniva più così naturale. Per mettersi il cuore in pace, Thierry tirò fuori la vecchia racchetta Snauweart mid-size, le Stan Smith, qualche altra reliquia e fece un prudente ingresso ai Feuillants, il club più vicino a casa sua. Dopo avere pagato l’iscrizione, domandò al custode se conosceva un giocatore che avesse bisogno di un partner. L’uomo gli indicò un tizio alto e solo che faceva rimbalzare la pallina contro un muro con una bella regolarità.
Nonostante frequentasse il club ormai da due mesi, Gredzinski non si sentiva ancora abbastanza tranquillo per sfidare un giocatore esperto, né abbastanza paziente da trattenere i colpi con un principiante. In realtà si rifiutava di ammettere che la sua eterna paura del confronto si manifestava anche lì, in quelle due ore di sport settimanali. Gredzinski aveva la tendenza a vedere una logica di guerra nei contesti meno aggressivi. Che uno sconosciuto venisse a proporgli qualche scambio, o magari un set, perché no, era senz’altro l’occasione di scendere finalmente in campo. Per valutare il livello del proprio avversario, Gredzinski gli fece alcune domande cui Blin rispose a monosillabi, e i due si diressero al campo n° 4.