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A Dublino, in un vicolo cieco

Recensione di “Gente di Dublino” di James Joyce

James Joyce, Gente di Dublino, Mondadori

Città morente, perduta, dimentica di sé, spogliata di ogni qualità etica e priva di slancio spirituale, la Dublino che James Joyce presenta in Gente di Dublino, una delle sue opere più note, è insieme uno specchio – nelle cui miserie morali e nei cui pregiudizi, notava Ezra Pound, molte altre città potrebbero riconoscersi – e il simbolo della “perduta innocenza” dei suoi abitanti (a loro volta simbolico ritratto dell’uomo inteso in senso generale).


“La mia intenzione”, scrive l’autore nel maggio 1906 per spiegare il senso del suo lavoro, rifiutato da più di un editore e tacciato di immoralità, “era di scrivere un capitolo della storia morale del mio paese e ho scelto Dublino come scena perché quella città mi pareva essere il centro della paralisi. Ho cercato di presentarla al pubblico indifferente sotto quattro dei suoi aspetti: infanzia, adolescenza, maturità e vita pubblica. I racconti sono posti in questo ordine […]. Non posso fare di più, né posso cambiare quello che ho scritto”.

Ed è proprio con l’attenzione e la cura dello storico che il grande scrittore irlandese racconta l’angosciosa realtà del suo mondo; lo fa per mezzo di una prosa ricca di suggestioni e sfumature, viva, scalpitante addirittura, eppure trattenuta, quasi mortificata nella spirale soffocante della minuziosa descrizione d’ambiente, nella sofferta essenzialità dei dialoghi, strumento principe d’incomunicabilità, e nel ritratto (fisico e psicologico) dei protagonisti dei diversi racconti che compongono il suo libro – uomini e donne prigionieri del proprio tempo, del tutto incapaci di comprenderlo e di rappresentarlo, supini a regole di comportamento e di valutazione del bello e bel buono, del giusto e dell’ingiusto sature di ipocrisia, malvagità e menzogna, o nel migliore dei casi di intollerabile ignoranza.

Uomini e donne come le sorelle Nannie ed Eliza (personaggi del racconto intitolato Le sorelle, con cui si apre il volume) che, rese cieche, e quel che è peggio, insensibili, dalla loro religiosità rigida e ottusa, non nutrono dubbi di sorta sull’amata figura di Padre Flynn (il vero protagonista della vicenda narrata), prete ormai in fin di vita che sembra aver dimenticato da tempo senso e ragione della propria vocazione; o come l’odioso Farrington, uomo uguale a tanti, a troppi, privo di qualità, impiegato mediocre che sfoga le frustrazioni e le umiliazioni patite sul lavoro in una violenta tirannia familiare che inevitabilmente colpisce il più debole e indifeso della cerchia, il figlio (indimenticabili, nella loro tragica desolazione morale, gli ultimi momenti del racconto, le urla disperate del piccolo selvaggiamente picchiato dal padre armato di bastone, la sua inutile implorazione di pietà, l’offerta di una preghiera riparatrice indirizzata alla Madonna: “Oh pa’! Non picchiarmi pa’! Dirò… dirò un’Ave Maria per te… Dirò un’Ave Maria per te, pa’, se non mi picchi… Dirò un’Ave Maria”); o ancora come i politici e i faccendieri che, nel bellissimo racconto intitolato Il giorno dell’edera nell’ufficio elettorale, non sanno fare di meglio, per commemorare Charles Stewart Parnell, considerato alla stregua di un eroe nazionale per la sua coraggiosa battaglia in favore dell’autonomia dell’Irlanda, che brancicare vuote frasi fatte grondanti retorica e declamare una poesia di imbarazzante pochezza.

Racconto dopo racconto, lungo un’ininterrotta teoria di macerie (materiali e simboliche) Joyce illustra i diversi passaggi di un’esistenza (quella di Dublino, che come già anticipato è potenzialmente quella di qualsiasi altro luogo del mondo, e quella dei suoi abitanti, che possono essere, e a conti fatti sono, tutti gli uomini), ne enumera i vizi, le debolezze, i peccati e ne segue il cammino fino alla morte, che silenziosa trionfa nel lungo racconto che chiude l’opera (I morti).

Gente di Dublino è uno dei grandi capolavori della letteratura del Novecento; è un archetipo, un modello, se non squisitamente letterario (ma lo è anche da questo punto di vista), di certo psicologico ed etico. Lo “stadio” morale dell’uomo raccontato da Joyce, infatti, non è un’età che ci siamo lasciati alle spalle, non è un’era o un periodo storico cui possiamo regalare uno sguardo distratto o il neutro interesse dello studioso, è la nostra condizione. Joyce ci insegna a esserne consapevoli, e a restare vigili.

Eccovi l’inizio dell’ultimo racconto, il più importante. La traduzione, per Mondadori, è di Attilio Brilli. Buona lettura.

Lily, la figlia del custode, non si sentiva più le gambe dal gran correre. Non faceva a tempo ad accompagnare un invitato nello sgabuzzino dietro la dispensa, a pianterreno, e ad aiutarlo a togliersi il soprabito, che l’asmatico campanello d’ingresso riprendeva a suonare, e lei doveva trottare lungo il corridoio spoglio per introdurre un altro ospite. Buon per lei che non doveva occuparsi anche delle signore. A quello avevano pensato la signorina Kate e la signorina Julia, che avevano trasformato il bagno del piano di sopra in uno spogliatoio per signore. Erano appunto là le signorine: chiacchieravano, ridevano, si davano un gran daffare e, a turno, comparivano in cima alle scale, affacciandosi alla ringhiera per domandare a Lily chi fosse venuto.

Era sempre un grande evento il ballo annuale delle signorine Morkan. Vi intervenivano tutte le loro conoscenze: parenti, vecchi amici di famiglia, le coriste di Julia, tutte le scolare di Kate in età di parteciparvi, e perfino qualche allieva di Mary Jane. Mai una volta che non fosse riuscita una festa briosa: per anni e anni era sempre andato tutto splendidamente, per quanto almeno si poteva ricordare, da quando cioè Kate e Julia, dopo la morte del fratello Pat, avevano lasciato l’abitazione in Stoney Batter, e con l’unica nipote, Mary Jane, erano andate a stare nella buia e squallida casa di Usher Island, di cui avevano preso in affitto il piano superiore dal signor Fulham, il commerciante di granaglie all’ingrosso del pianterreno.

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