Recensione di “Metamorfosi” di Apuleio
II secolo d.C. Governata dagli Antonini (prima da Antonino Pio e in seguito dal figlio adottivo, Marco Aurelio), Roma vive un periodo all’apparenza florido. Si consolidano i confini dell’impero, si riorganizzano le province, si difende la pace e si promuovono le arti e gli studi, soprattutto quelli filosofici.
Agli intelletti più sensibili e avvertiti dell’epoca (tra i quali spiccano, per originalità di stile e profondità di pensiero, Apuleio e lo stesso Marco Aurelio, anche se l’imperatore e le sue riflessioni filosofiche meritano un discorso a parte), tuttavia, non sfugge come questo positivo stato di cose in realtà rispecchi più un sostanziale e pernicioso immobilismo sociale, economico e culturale che un reale progresso; l’efficienza amministrativa del governo non può infatti nascondere la più generale sterilità politica, né la mancanza pressoché totale di capacità decisionale, e allo stesso modo il virtuosismo della sapienza giuridica non è sufficiente a dare lustro a un ambiente letterario che si nutre esclusivamente di vuoto formalismo. Il dominio incontrastato della cosiddetta “seconda sofistica”, che più di qualsiasi altra corrente letteraria caratterizza questo periodo, lungi dal rappresentare un autentico rinascimento culturale, si rivela uno stucchevole esercizio di abilità retorica fine a se stessa; la gran parte degli autori in voga si limita a sfoggiare il proprio enciclopedico sapere al solo scopo di guadagnare facili applausi, ma non riesce a proporre nulla di significativo, non ha il coraggio di mettersi in gioco, si limita dunque a divertire un pubblico di pochissime pretese, già di per sé abituato a essere superficiale e distratto. In una parola, la cultura letteraria soffoca, circondata da fasti talmente assurdi da risultare ridicoli. Ed è esattamente su questa involontaria comicità delle belle lettere che fa leva Apuleio di Madaura, retore e filosofo intenzionato a scuotere dalle fondamenta i canoni del bello e del vero universalmente accettati.
Nel suo capolavoro, L’asino d’oro, il registro espressivo dominante è quello comico. Apuleio, dunque, sceglie di avvicinarsi al lettore nel modo più semplice e immediato, presentando la sua opera come una “storia milesia”, cioè come uno scritto ispirato alle novelle licenziose composte dal greco Aristide di Mileto e assai diffuse nel mondo latino, e non v’è dubbio che le avventure vissute dal suo protagonista, il giovane Lucio, cha vanta discendenze illustrissime, siano davvero spassose. Grazie a una scrittura brillante, vivacissima, evocativa e ricca di pungente ironia, Apuleio (che prima, attraverso raffinati virtuosismi stilistici, dimostra di aver appreso l’essenziale dalla scuola della “seconda sofistica” e poi, con il continuo cambio di toni narrativi, la grande ricchezza descrittiva, la cura minuziosa nella costruzione dei caratteri e l’arguzia dei dialoghi ne supera di slancio l’ingessato accademismo) racconta della sfortunata scoperta della magia da parte del suo eroe: ospite di un usuraio, infatti, Lucio scopre che la moglie del suo anfitrione è in grado, semplicemente spalmandosi un unguento sulla pelle, di trasformarsi in un uccello. Ansioso di fare altrettanto, il giovane, aiutato dalla servetta Fotide, si sottopone al rito, ma sbaglia preparato e si ritrova trasformato in un asino: superfluo dire che questo incidente, per Lucio, è solo l’inizio del “dramma”, e che il malcapitato, in sembianza d’animale, dovrà sopportare un gran numero di patimenti prima di recuperare la propria forma umana.
Muovendosi con consumata maestria tra le grottesche atmosfere della metamorfosi compiuta e il “realismo” del vissuto del suo protagonista (Lucio, dopo la trasformazione, mantiene la capacità di discernimento di un essere umano), Apuleio costruisce un’opera entusiasmante, travolgente, spensierata, impreziosita, non solo a livello puramente formale, dal lungo e delicatissimo “inciso” – in realtà una storia nella storia – dedicato al tormentato legame tra Amore e Psiche. Godibile come un romanzo picaresco e affascinante come un’allegoria (la regressione animalesca di Lucio, infatti, si può interpretare come il simbolo della corruzione cui è condannata l’anima dell’uomo quando si lascia vincere delle passioni più meschine), L’asino d’oro è un’opera splendida, che non invecchia.
Eccovi l’inizio. Buona lettura.
P.S. Per qualche giorno sarò in vacanza. Se finora avete consultato con piacere questo blog, vi chiedo di non abbandonarlo, anche se non lo troverete aggiornato. Mi auguro sia per voi l’occasione di rileggere qualche vecchia scheda. Per parte mia, vi prometto che il mio silenzio non durerà a lungo. Ho intenzione di continuare questa esperienza, e spero di farlo in vostra compagnia. Intanto, approfitto della “comunicazione di servizio” per ringraziare, di cuore, tutti coloro che si sono uniti al blog. E tutti coloro che l’hanno visitato.
Eccomi a raccontarti, o lettore, storie d’ogni genere, sul tipo di quelle milesie e a stuzzicarti le orecchie con ammiccanti parole, solo che tu vorrai posare lo sguardo su queste pagine scritte con un’arguzia tutta alessandrina.E avrai di che sbalordire sentendomi dire di uomini che han preso altre fogge e mutato l’essere loro e poi son ritornati di nuovo come erano prima.Dunque, comincio.Certo che tu ti chiederai chi io sia; ebbene te lo dirò in due parole: le regioni dell’Imetto, nell’Attica, l’Istmo di Corinto e il promontorio del Tanaro nei pressi di Sparta sono terre fortunate celebrate in opere più fortunate ancora. Di lì, anticamente, discese la mia famiglia; lì, da fanciullo, appresi i primi rudimenti della lingua attica, poi, emigrato nella città del Lazio, io che ero del tutto digiuno della parlata locale, dovetti impararla senza l’aiuto di alcun maestro, con incredibile fatica.Perciò devi scusarmi se da rozzo parlatore qual sono, mi sfuggirà qualche barbarismo o qualche espressione triviale.Del resto questa varietà del mio linguaggio ben si adatta alle storie bizzarre che ho deciso di raccontarti.Incomincio con una storiella alla greca. Stammi a sentire, lettore, ti divertirai.