Recensione di “La boutique del mistero” di Dino Buzzati
A giudizio di Aristotele, l’importanza della poesia, così come il suo valore, non si deve tanto alla capacità di rappresentare il vero, il reale, quanto piuttosto al potere di evocare la potenziale infinità di quel che potrebbe essere, di dar vita a una sorprendente e affascinante “geografia del possibile”.
Che questa caratteristica distingua la poesia dagli altri generi narrativi, che la definisca esattamente oppure ne colga soltanto un aspetto, magari marginale, è questione che in questa sede preferisco lasciare in sospeso (a mio avviso Aristotele coglie nel segno, almeno nella misura in cui intendiamo il termine possibile come personale “trasfigurazione” di tutto ciò che conosciamo e di cui facciamo esperienza, ma vi sarei grato se trovaste tempo e voglia di darmi il vostro parere), perché quel che voglio sottolineare è che l’assunto di Aristotele ha trovato magistrale applicazione pratica per merito di uno dei più grandi scrittori italiani di sempre, Dino Buzzati, autore, tra moltissimi capolavori, di un meraviglioso libro di racconti, La boutique del mistero, pubblicato nel 1968.
Il volume, che raccoglie trentuno storie (le migliori, secondo il parere dell’autore) si muove lungo l’impalpabile confine che separa – e proprio per questo anche unisce – realtà e immaginazione, ordinario e straordinario, certezza e inganno, verità e illusione; con calcolata lentezza, prendendo le mosse da una situazione che non ha in sé nulla di insolito, Buzzati accompagna il lettore in una sorta di “mondo alla rovescia” nel quale i consueti, rassicuranti punti di riferimento cui ognuno di noi è solito fare ricorso (quelli del buon senso, del ragionamento, dell’evidenza dei sensi) non solo perdono completamente d’importanza – un po’ come se i nostri occhi, pur mantenendosi perfettamente sani, d’improvviso cessassero di vedere, tramutandoci in un derelitto esercito di ciechi paralizzato dal terrore – ma subiscono un così profondo processo di deterioramento da risultare radicalmente inadatti a interpretare il nuovo stato di cose che nel frattempo si è venuto creare. In una parola, lo scrittore veneto conduce l’uomo in un viaggio oltre se stesso, lo spoglia di tutte le sue sicurezze, delle conquiste, della sua storia (eroica o ignobile che sia, poco importa) e del suo presente, e lo lascia solo con se stesso, alle prese con l’abisso terribile della reale scoperta di sé, della propria debolezza, della propria incurabile fragilità. Lo fa scegliendo il dolce registro narrativo del realismo magico, lasciando ampio spazio al simbolismo, all’interpretazione mediata (i suoi racconti, anche i più drammatici, hanno il sapore della fiaba, dell’invenzione) e volutamente rinunciando a qualsiasi legame con l’attualità, ma nello stesso tempo con cristallina chiarezza.
La sua non è una denuncia – come invece lo è la tragica metafora politica rappresentata da Josè Saramago in Cecità, un libro, almeno per quel che riguarda l’assunto di fondo, non così lontano come potrebbe apparire a prima vista da questo piccolo gioiello di Buzzati – piuttosto una pacata riflessione condotta con determinazione fino alle sue estreme conseguenze.
La boutique del mistero è una sorpresa continua, un incalzante susseguirsi di vicende che, pur nella loro irriducibile diversità, mantengono una fondamentale unità. Alcune storie spiccano su altre per originalità (Sette piani), potenza espressiva (Una cosa che comincia per elle), ritmo della narrazione e gestione della tensione (Qualcosa era successo), ma nel complesso l’opera mantiene dal principio alla fine un eccellente equilibrio e si legge d’un fiato. Una menzione particolare, tuttavia, merita lo struggente Inviti superflui, lettera d’amore di commovente intensità e di straziante lirismo indirizzata a una persona ormai così lontana da essere irraggiungibile; quasi un timido affacciarsi dell’uomo Buzzati nel più bel sogno da lui sognato. Un sogno che, per fortuna, ci ha permesso di condividere.
Eccovi l’inizio del primo racconto, intitolato I sette messaggeri.
Partito ad esplorare il regno di mio padre, di giorno in giorno vado allontanandomi dalla città e le notizie che mi giungono si fanno sempre più rare.
Ho cominciato il viaggio poco più che trentenne e più di otto anni sono passati, esattamente otto anni, sei mesi e quindici giorni di ininterrotto cammino. Credevo, alla partenza, che in poche settimane avrei facilmente raggiunto i confini del regno, invece ho continuato ad incontrare sempre nuove genti e paesi; e dovunque uomini che parlavano la mia stessa lingua, che dicevano di essere sudditi miei.
Penso talora che la bussola del mio geografo sia impazzita e che, credendo di procedere sempre verso il meridione, noi in realtà siamo forse andati girando su noi stessi, senza mai aumentare la distanza che ci separa dalla capitale; questo potrebbe spiegare il motivo per cui ancora non siamo giunti all’estrema frontiera.
Ma più sovente mi tormenta il dubbio che questo confine non esista, che si estenda senza limite alcuno e che, per quanto io avanzi, mai potrò arrivare alla fine.
Mi misi in viaggio che avevo già più di trent’anni, troppo tardi forse. Gli amici, i familiari stessi, deridevano il mio progetto come inutile dispendio degli anni migliori della mia vita. Pochi in realtà dei miei fedeli acconsentirono a partire.
Sebbene spensierato – ben più di quanto sia ora! – mi preoccupai di poter comunicare, durante il viaggio, con i miei cari, e fra i cavalieri della scorta scelsi i sette migliori, che mi servissero da messaggeri.