Non lontano dai quartieri più ricchi, con i suoi sofisticati riti, gli appuntamenti eleganti, le riunioni d’affari e le colte serate a teatro, la New York del XIX secolo cela un angolo d’inferno. I suoi quartieri periferici – per la precisione l’area dei Five Points – sono un territorio selvaggio, primordiale, incontrollato e feroce dove case e palazzi, quasi tutti ridotti a ruderi, sembrano più tracce di una civiltà scomparsa che testimonianza orgogliosa della presenza di una società organizzata, e della città che ha saputo costruire.
È qui, tra queste strade appena abbozzate e cariche di ogni genere di sudiciume dove il solo linguaggio conosciuto è la violenza (inflitta e subita per abitudine, per gioco, per noia, ma spesso anche per interesse), che nascono le prime gang criminali di New York; in un certo è qui, in questo luogo così sorprendentemente reale da apparire leggendario, che nasce la città stessa. Qui, nella lotta tra fuorilegge divenuti, per la spietatezza del loro agire o solo per certe eccentricità di carattere, figure quasi mitologiche, di cui si raccontano le gesta con infantile entusiasmo e insieme con timore quasi superstizioso; qui, nella confusa, spesso tragica ma inarrestabile epopea delle ondate migratorie, che ha visto approdare in questa terra nuova, vergine e letale al pari di una giungla, irlandesi, italiani, polacchi, ebrei e tanti altri ancora; qui, nei traffici illeciti e nei compromessi innominabili di una politica priva di scrupoli e legata a filo doppio con le bande che controllano il territorio, impongono la loro legge e governano e sovrintendono ogni commercio; qui, dove la religione dei predicatori e degli uomini di Dio, berciata a squarciagola da pulpiti improvvisati, ha i medesimi accenti delle urla sguaiate degli avventori alle mescite di birra.
A raccontare questo mondo in costante fermento, forgiato nel sangue delle battaglie di strada eppure non privo di un suo ordine morale, di un suo indirizzo etico, di un codice di comportamento in base ai quali i criminali si guardano bene dal negare quel che sono (anzi, lo rivendicano a gran voce) e ancor più dal sottrarsi alle conseguenze di quel che fanno, siano esse la vendetta di un nemico o di un clan rivale, o la “giustizia” di polizia e magistratura, è il giornalista Herbert Asbury in un saggio che ha i colori del più eccitante tra i romanzi d’avventura, Le Gang di New York (in Italia edito da Garzanti).
Per quanto datato – il libro di Asbury è stato pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti nel 1927 – il saggio, che ha ispirato l’omonimo film del 2002 diretto da Martin Scorsese, si legge con estrema facilità (e con altrettanto piacere). La cronaca dei fatti è asciutta, la ricostruzione storica, così come quella d’ambiente, dettagliata, il disegno dei personaggi allo stesso tempo preciso ed evocativo, capace sempre di suggestionare, e lo stile limpido, scorrevole.
Proprio come le storie raccontate ai bambini per farli addormentare, le pagine di Le Gang di New York prima catturano la curiosità del lettore, invitato a guardare com’era, negli anni della sua “infanzia”, la città forse più famosa al mondo, poi lo spaventano fino a terrorizzarlo presentandogli tipacci del calibro di Albert E. Hicks, gangster e ladro indipendente, Bill Poole, sinistramente soprannominato “Il Macellaio”, il suo nemico giurato John Morrissey (che in un’occasione venne da Poole picchiato quasi a morte) e gang come i Bowery Boys, i Dead Rabbits e i Whyos il cui unico credo era la devastazione – a proposito di questi ultimi, Asbury scrive che sono stati “la più malvagia accozzaglia di malviventi, assassini e ladri che abbia mai operato nella metropoli – e infine, con accenti quasi nostalgici, descrive gli ultimi fuochi del tempo dei gangster, il tramonto della loro epoca maledetta ed eroica.
Le Gang di New Yorkè un saggio storico che ha il ritmo incalzante di un’inchiesta giornalistica e il tono spavaldo di un romanzo pulp. È un libro davvero originale, che merita di essere letto; è una galleria di tipi criminali unica, un tesoro da collezionisti. Per dimostrarvelo, eccovi un paio di ritratti di cattivi “da antologia” . Buona lettura.
Un altro membro illustre degli antichi Whyos, prima dell’epoca di Driscoll e Lyons, fu Dandy Johnny Dolan, che non era solo un eminente lottatore di strada ma anche un vero specialista in fatto di furti nei solai e un ladro di raro talento; per lui niente era troppo prezioso o troppo insignificante da non poter essere rubato. Gli altri gangster lo consideravano una sorta di cervellone perché aveva perfezionato la tecnica di cavare gli occhi; si dice che avesse creato uno strumento, fatto di rame e fissato al pollice, che svolgeva questo compito in modo rapido e pulito. La sua invenzione venne utilizzata con grande successo dai Whyos quando lottavano con altre bande. Gli si attribuiva anche il merito di aver conficcato frammenti di un’affilata lama da accetta nelle suole dei suoi stivali da combattimento, in modo che quando stendeva un avversario e poi lo calpestava otteneva risultati tanto cruenti quanto definitivi. Ma solitamente Dandy Johnny non portava gli stivali da combattimento. Si proteggeva i piedi con calzature fatte ad opera d’arte perché, Beau Brummel della malavita dell’epoca, era incredibilmente pignolo nella scelta dell’abbigliamento e nella cura della sua persona. In nessun caso, nemmeno per prendere parte a una rissa o a una razzia che promettesse un ricco bottino, si mostrava in pubblico prima di aver debitamente cosparso di brillantina i capelli e aver elegantemente arricciato e unto il ciuffo sulla fronte.
Nel corso della sua carriera come capo gang Monk adottò una ventina di pseudonimi […]. Apparentemente il suo vero nome era Edward Osterman […]. Ben presto abbandonò il negozio per venire a New York, dove assunse il nome di Edward Eastman e scese rapidamente fino al suo naturale livello sociale. A metà degli anni Novanta cominciò a salire alla ribalta come sorvegliante della New Irving Hall, e si dice che sia stato più feroce di Eat ’Em Up Jack McManus che stava passando alla storia rivestendo una carica simile nella Suicide Hall e al New Brighton. Eastman svolgeva le sue mansioni portandosi dietro un enorme randello, oltre ad avere un manganello infilato nella tasca laterale e le mani ornate da tirapugni. Nell’usare queste armi era straordinariamente efficace e in caso di emergenza poteva brandire una bottiglia di birra o un tubo di piombo con una destrezza che rasentava il virtuosismo. Era anche un buon pugile e un avversario formidabile nelle risse pur non superando il metro e sessantacinque e i sessantotto chili.
Dopo meno di un anno di carriera aveva rotto diverse decine di teste e si vantava del fatto che, durante i suoi primi sei mesi come sorvegliante della New Irving, cinquanta uomini oggetto delle sue attenzioni avevano richiesto le cure di un medico; in realtà le sue aggressioni con lo sfollagente divennero talmente frequenti che i gioviali autisti delle ambulanze del Bellevue Hospital ribattezzarono il reparto incidenti «Padiglione Eastman». Ma restava comunque un gentiluomo; era orgoglioso di non aver mai colpito una donna con il suo manganello, indipendentemente da quanto lei lo infastidisse. Quando era necessario castigare una signora per le sue cattive maniere, si limitava a farle un occhio nero con un pugno.