Recensione di “L’uomo macchina e altri scritti” di Julien Offroy De La Mettrie
Medico e filosofo, illuminista convinto, rigoroso ed entusiasta, Julien Offroy de La Mettrie fu principalmente un uomo coraggioso, che seppe cogliere e interpretare lo spirito nuovo del suo tempo e decise di lottare per difendere le sue idee. Allievo di Hermannus Boerhaave, medico e chimico olandese considerato uno dei grandi modernizzatori della medicina del XVIII secolo, La Mettrie approfondì in modo particolare gli studi di fisiologia e a più riprese si occupò delle alterazioni mentali conseguenti a traumi subiti dal sistema nervoso.
Fu proprio grazie a queste esperienze (per certi versi rivoluzionarie) che il pensatore francese maturò, riguardo all’uomo, le convinzioni materialistiche che divennero cardine del suo pensiero e gli valsero attacchi virulenti e altrettanto feroci persecuzioni; al punto che il suo libro più famoso, L’uomo macchina, pubblicato nel 1748 in Olanda (Paese in cui aveva trovato riparo dopo essere fuggito dalla natia Francia), non solo venne pubblicamente condannato ma addirittura dato alle fiamme in piazza.
Un odio implacabile, dunque, figlio principalmente della paura (del cieco fanatismo religioso in primis, per nulla disposto ad accettare una dottrina che dichiara l’uomo semplicemente una macchina, estremamente complicata, certo, ma pur sempre una macchina, all’interno della quale la componente spirituale dell’anima non ha più ragion d’essere, ma anche di una consolidata tradizione culturale e di pensiero che più di tutto teme di perdere il proprio incontrastato dominio, di vedere messe in dubbio, quando non apertamente contestate, le proprie verità, come per esempio la cartesiana attribuzione all’anima razionale delle attività cognitive superiori dell’uomo, cioè pensiero e volontà), ma soprattutto antimoderno e, seppur a un livello ancora embrionale, antiborghese.
Per dirla con le parole di Giulio Preti, autore di una splendida e densissima postfazione all’edizione de L’uomo macchina pubblicata dalla Casa Editrice SE (collana L’Altra Biblioteca), “L’homme machine è una di quelle opere che, più di molte altre, valgono non tanto per sé quanto come documento ed espressione di un tempo, di un’epoca, di una mentalità. Più che una grande opera, è un’opera rappresentativa. Ma rappresentativa di una grande epoca e di un grane movimento di idee: l’Illuminismo. La borghesia non è sempre stata reazionaria: come tutte le classi, come tutti gli uomini ha conosciuto la propria giovinezza, ed è stata una giovinezza gloriosa, trionfante, potente, luminosa. Nell’età moderna, la borghesia europea ed americana si è affermata nel mondo come classe rivoluzionaria, come classe che ha voluto e saputo rinnovare radicalmente, adattare alle proprie esigenze e ai propri istinti di felicità uomini e cose, la natura esterna come le istituzioni e le leggi. Non bisogna giudicarla da quello che è oggi; ai suoi tempi questa classe ha saputo vincere le distanze, la fame, le malattie, i pregiudizi religiosi, i privilegi «per diritto divino», affermando la grande verità (che i borghesi di oggi non amano sentir ripetere) che gli uomini nascono liberi e uguali, senza differenza di origine, razza o classe sociale; affermando che l’uomo è sovrano nello Stato politico come è sovrano nella natura. Nel campo ideologico, l’espressione delle energie e delle aspirazioni della borghesia è stato il movimento filosofico e scientifico dell’Illuminismo […] caratterizzato da una decisa volontà di liberare la cultura, ivi comprese le istituzioni e i costumi, dall’impero di una tradizione che si reggeva solo perché tradizionale, e solo perché sorretta dagli interessi egoistici e classisti dei preti e dei vecchi aristocratici. Ma è caratterizzato anche da una grande fede nell’intelligenza, e nel potere di questa di portare l’uomo, attraverso una migliore conoscenza di se stesso e della natura, ad una vita, individuale e sociale, più felice. Il Seicento aveva visto il grandioso fenomeno della nascita della scienza moderna; il Settecento ne vede l’assetto e il mirabile sviluppo; fra i due secoli sta la gigantesca figura di Isaac Newton, che nella sua opera ne sintetizza uno aprendo l’altro. Il newtonianismo diventa l’indirizzo spirituale dominante nell’Inghilterra, e poi nell’Europa, del secolo XVIIII. «Newtonianismo» significa culto della ragione scientifica, di quella ragione che procede sicura nella conoscenza del mondo senza affidarsi a ragionamenti astratti e a priori e neppure esclusivamente alle apparenze sensibili, ma contemperando indagine sperimentale con ragionamento matematico. Esso, nel Settecento, va assai al di là delle intenzioni dello stesso Newton: diventa un appello all’esperienza e alla ragione contro tutte le forme di religione positiva (chiesastica), di dogmatismo e di fanatismo; non solo la conoscenza della natura, ma anche la conoscenza del cuore e della natura dell’uomo, delle leggi più utili, della morale, vengono affidate all’intelligenza scientifica, sottraendole alla tradizione e all’insegnamento di preti e monarchi”.
Manifesto orgoglioso di un nuovo antropocentrismo (con l’uomo posto al centro della ricerca scientifica e non più del mondo), L’uomo macchina, che si apre con una dedica al celebre anatomista tedesco Albrecht von Haller, cerca nel corpo, e solo nel corpo (nella macchina del corpo) la risposta a una delle irrinunciabili domande della filosofia: cos’è l’uomo? Stabilito che si tratta di una macchina, La Mettrie indica anche le discipline necessarie alla sua conoscenza, che dev’essere necessariamente a posteriori (non c’è spazio, qui, per nessuna metafisica aprioristica, che in realtà non è che vuoto chiacchiericcio): medicina, fisiologia, anatomia comparata, patologia. Attraverso esse è possibile, sostiene La Mettrie, comprendere anche il funzionamento della mente, e più ancora le sue disfunzioni; ed è esattamente qui, nell’analisi della pazzia e dell’alienazione (considerati stati riconducibili a danni fisicisubiti dal sistema nervoso) che L’uomo macchina dimostra tutta la sua modernità; il suo autore, infatti, chiede per coloro che compiono efferatezze in preda al delirio non le severe punizioni previste dal sistema penale in voga, bensì delle cure appropriate. La “riduzione” dell’essere umano a macchina, dunque, all’opposto di quanto sostenuto da avversari e detrattori di La Mettrie, non coincide con la sua degradazione ma con la sua più autentica rappresentazione.
Trattato agile, breve, estremamente chiaro e diretto nello stile espositivo, L’uomo macchina, pur non essendo un testo fondamentale, resta pur sempre un documento assai significativo; è un’opera coraggiosa e forte, una testimonianza della tenace volontà di progresso dell’uomo. Leggerla non è impossibile per chi sia digiuno di filosofia (la già citata edizione SE ha un ottimo apparato di note), anche se conoscere almeno a grandi linee il dibattito culturale dell’epoca (e i sistemi di pensiero di Cartesio, Locke, Leibniz e Malebranche) agevola non poco la comprensione del saggio.
Eccovi l’inizio. Il primo paragrafo, significativamente intitolato Critica dello spiritualismo, e parte del secondo, Ragione e rivelazione. Buona lettura.
Non basta che un sapiente studi la natura e la verità: deve anche osare dirla a vantaggio del piccolo numero di coloro che vogliono e possono pensare – infatti agli altri, che sono volontariamente schiavi dei pregiudizi, non è possibile di raggiungere la verità più che alle rane di volare.
Riduco a due i sistemi dei filosofi intorno all’anima umana: il primo, e più antico, è il sistema del materialismo; il secondo è quello dello spiritualismo.
I metafisici che hanno insinuato che la materia potrebbe avere la facoltà di pensare non hanno disonorato la loro ragione. Perché? Perché hanno il vantaggio (che in questo caso è davvero un vantaggio) di essersi espressi male. Infatti, chiedere se la materia possa pensare, considerandola soltanto in se stessa, è come chiedere se la materia possa segnare le ore. Si vede subito che noi eviteremo questo scoglio, contro il quale Locke ha avuto la disgrazia di urtare.
I leibniziani, con le loro monadi, hanno formulato una ipotesi inintelligibile: hanno piuttosto spiritualizzata la materia che materializzata l’anima. Ma come si può definire un essere la cui natura ci è completamente sconosciuta?
Descartes e tutti i cartesiani, fra i quali da molto tempo si annoverano i seguaci di Malebranche, hanno commesso lo stesso errore: hanno ammesso due sostanze distinte nell’uomo, come se le avessero viste e contate.
I più saggi hanno detto che l’anima non potrebbe conoscersi senza i lumi della fede,: tuttavia, nella loro qualità di esseri ragionevoli, hanno creduto di potersi riservare il diritto di esaminare quello che la Scrittura ha voluto dire con la parola spirito, di cui si serve quando parla dell’anima umana. E se nelle loro ricerche non si sono trovati d’accordo con i teologi, forse che questi ultimi lo sono fra di loro più di quanto lo siano gli altri?
Ecco in poche parole il risultato di tutte le loro riflessioni.
Se c’è un Dio, egli è autore della natura come della rivelazione: ci ha dato l’una per spiegare l’altra e la ragione per accordarle fra di loro.
Diffidare delle conoscenze che si possono attingere dai corpi animati equivale a considerare la natura e la rivelazione come due contrari che si distruggono, e di conseguenza è come osare sostenere questa assurdità: che Dio si contraddice nelle sue diverse opere, e ci inganna.
Dunque, se c’è una rivelazione, essa non può smentire la natura.