Recensione di “Padri e figli” di Ivan S. Turgenev
Nella seconda metà del XIX secolo, la Russia vive profondi cambiamenti sociali. Nel 1861 i contadini vengono emancipati dalla servitù della gleba e anche all’interno dei ceti più colti, fino ad allora rappresentati dalle classi nobili, comincia a farsi strada una generazione di intellettuali provenienti in massima dalla piccola e media borghesia e dal mondo ecclesiastico. Tutto questo porta, rispetto al recente passato, a una più decisa democratizzazione delle idee, o meglio delle ideologie, e soprattutto alla pressante richiesta di una loro maggior concretezza.
L’intelligencija dei “tempi nuovi”, che con sempre maggior decisione sta facendo sentire la propria voce, riconosce ai propri padri la bontà delle loro convinzioni (su tutte, un diffuso e nobile liberalismo), ma gli rimprovera di non aver mai avuto la forza di sottrarle alla sterilità della teoria, della dialettica pura, allo spazio immobile e impalpabile dei dibattiti e dei confronti; di non aver saputo, in sostanza, calarle nel mondo reale, trasformarle in azione. Un compito che la più avvertita gioventù russa, trascinata dal proprio entusiasmo, rivendica e si assume: per loro, la sola dignità possibile del pensiero sta nella sua traduzione pratica, e allo stesso modo la definizione dei valori di riferimento di una società dev’essere una cosa sola con il loro perseguimento “nel reale”, pena il naufragio metafisico cui si è condannata la generazione precedente. Generazione che ha nel grande romanziere Ivàn Sergéevic Turgénev una delle voci più autorevoli. Colpito dalla vitalità (ma anche dalla sostanziale ingenuità) di questa emergente classe di pensatori, il cui insistito richiamo alla “vita vera”, all’uomo “di carne e sangue”, all’irriducibile “concretezza della verità” finisce per tradursi in un materialismo tanto sostanziale quanto elementare, Turgénev prende posizione in questo dibattito scrivendo la più famosa delle sue opere, Padri e figli, il cui protagonista, il giovane, fiero e spregiudicato Bazàrov, è il portavoce delle nuove istanze di pensiero.
Convinto di essere destinato a qualcosa di grandioso, eppure a disagio nei confronti del grande patrimonio di idee politico-sociali, di convincimenti etici, di soluzioni estetiche e di elaborazioni filosofico-speculative elaborato dai propri predecessori (i “padri” con cui i nuovi intellettuali di Russia erano costretti a confrontarsi, e verso i quali provavano l’identico imbarazzo del personaggio di Turgénev), Bazàrov reagisce con alterigia, insofferenza, disprezzo; distrugge e nega legittimità a tutto ciò che non ha immediata evidenza sensibile, a tutto quel che non si può ricondurre a un dato d’esperienza, e non si accorge, così facendo, di perdere di vista proprio quella vita la cui essenza si vanta di conoscere, comprendere e possedere. A lui, che Turgénev non esista a definire, più con dispiacere che con avversione, nichilista, la vita, nella sua irriducibilità a qualsiasi semplificazione, riserva lezioni durissime: l’asprezza dei suoi scontri verbali con l’aristocratico conservatore Pàvel Petròvic (zio di Arkàdij, il migliore amico di Bazàrov), che avrebbero dovuto facilmente risolversi con l’inevitabile sconfitta del più anziano, portabandiera di una visione del mondo ormai superata e lontanissima dall’inconfutabile “verità dei fatti”, si trascina fino al drammatico epilogo di un duello (che non culmina in tragedia soltanto perché Bazàrov decide di non togliere la vita al suo avversario, limitandosi a lasciarlo sul terreno ferito), mentre l’incontro con Anna Sergèevna Odinzòva lo fa precipitare nell’abisso dolce e terribile dell’innamoramento, quella “astrazione romantica” che era sempre stato uno dei suoi preferiti oggetti di derisione e che d’improvviso si trasforma proprio in carne e sangue, nella sua carne e nel suo sangue, ma che non per questo diventa qualcosa di conoscibile. E alla fine, come per una crudele vendetta disegnata da un destino imperscrutabile, proprio l’amore, quel che Bazàrov si è sempre fatto un vanto di negare, si nega a lui condannandolo anticipatamente alla morte. Bazàrov si ammala di tifo e si spegne assistito da Anna Sergèevna Odinzòva, davanti alla quale, disperatamente, tenta di dare al suo ultimo respiro un briciolo di umana dignità.
Padri e figli è una preziosa testimonianza di un’epoca storica, è un’opera che ha la ricchezza di idee di un saggio filosofico, la profondità di un romanzo psicologico e l’intensità di una storia d’amore; la fluidità della scrittura di Turgénev, semplice, equilibrata eppure ricchissima di sfumature e sorprendentemente varia nei registri narrativi, avvince il lettore e il lirismo di certe sue pagine lo conquista e lo commuove. In una parola, Padri e figliè un libro splendido.
Eccovi l’inizio. Buona lettura.
«Ebbene Pëtr? Non si vedono ancora?», chiedeva, il 20 maggio dell’anno 1859, un signore sui quarant’anni, dal soprabito impolverato e dai calzoni a quadri, uscendo senza berretto sulla bassa scaletta di un albergo, situato sulla strada maestra di ***, rivolgendosi al suo domestico, un giovane paffuto dal mento ricoperto di peluria chiara e dai piccoli occhi opachi.
Il domestico, che portava un orecchino di turchese all’orecchio, ed aveva i capelli impomatati e variegati, e si muoveva con garbo, rivelando immediatamente l’individuo della nuovissima, perfezionata generazione, guardò compiacente lungo la strada e rispose:
«Non si vedono proprio, signore».
«Non si vedono?», ripetè il padrone.
«Non si vedono», rispose per la seconda volta il domestico.
Il padrone sospirò e sedette su una panchina. Presentiamolo dunque ai lettori, mentre se ne sta lì seduto, con le gambette ripiegate sotto di sé, guardandosi intorno soprappensiero.
Si chiama Nikolàj Petròvic Kirsànov. Possiede, ad una quindicina di verste dall’alberghetto, una bella tenuta di duecento anime, o meglio di duemila jugeri, com’egli si esprime ora che ha spartita la terra coi contadini facendone una «fattoria». Suo padre, un generale semianalfabeta, rozzo, ma non cattivo, aveva combattuto nel 1812 e aveva tirato la carretta per tutta la vita, da prima come comandante di brigata e poi di divisione, vivendo sempre in provincia dove, grazie al suo grado, aveva goduto d’una discreta considerazione. Nikolàj Petròvic era nato nella Russia meridionale, come pure suo fratello maggiore Pàvel, del quale parleremo in seguito, era stato educato in casa fino ai quattordici anni, circondato da istitutori di poco valore, da aiutanti disinvolti e servili e da altra gente militare.