Recensione di “Mare di papaveri” di Amitav Ghosh
Foce del Gange, 1838. Lo strapotere politico dell’Impero Britannico in India poggia quasi interamente sugli illeciti commerci di oppio e schiavi. Dalla terra – i campi dei contadini in massima parte destinati alla coltivazione dei papaveri, le immense fabbriche dove quantità inimmaginabili di fiori vengono pesati, lavorati, trasformati in droga e infine confezionati e preparati per il viaggio fino alle coste della Cina – alle acque del fiume sacro, e poi alla distesa infinita dell’Oceano, punteggiato di navi, golette e brigantini in attesa di caricare le casse, sistemarle nella stiva, e salpare alla volta della Cina.
Dalla terra, dalla desolazione assoluta dei poverissimi villaggi dell’interno, dove la vita non è altro che sopravvivenza e le famiglie sono costrette a vendere i propri cari per un pugno di monete o poche manciate di riso, di nuovo all’acqua, all’oscurità soffocante dei ventri di quelle stesse navi, dove uomini, donne e bambini “regolarmente acquistati” affrontano lunghe settimane di viaggio in condizioni proibitive per poi sbarcare in isole lontane, in luoghi sconosciuti, e ritrovarsi al servizio di ricchi possidenti; impiegati come bestie nelle loro piantagioni, oppure, i più fortunati, come servi nelle loro magnifiche dimore. A narrare questa realtà, il frenetico caos di un mondo che giorno dopo giorno si apre con entusiasmo alla modernità, al cambiamento e al progresso e nello stesso tempo teme di perdere per sempre valori, costumi, tradizioni e regole sociali nelle quali fino a quel momento si è riconosciuto; a descrivere le terribili contraddizioni e le insopportabili ingiustizie che dividono Paesi divenuti per la prima volta una cosa sola grazie al “libero mercato”, alla fecondità del suo spirito e all’intraprendenza febbrile dei suoi discepoli (la schiatta degli imprenditori inglesi, uomini decisi, risoluti, pronti a tutto, convinti che ogni commercio, persino quello di uomini e droga, sia un dono di Dio); a riunire tutto questo in un’unica opera, in perfetto equilibrio tra romanzo storico e saga avventurosa e impreziosita da una ricostruzione filologica di rara profondità e notevole fascino (che al diligente recupero dell’inglese ottocentesco affianca diverse lingue e dialetti indiani oltre alla particolarissima, unica parlata dei lascari, i marinai impiegati sulle navi; gruppi di etnia diversa, ma uniti, spesso affratellati, dal lavoro svolto), è lo scrittore indiano Amitav Ghosh (nato a Calcutta nel 1956), uno degli autori più interessanti nel panorama letterario contemporaneo.
In Mare di papaveri, primo libro della sua affascinante trilogia dedicata all’età dell’oro del traffico d’oppio tra India e Cina (del secondo volume, intitolato Il fiume dell’oppio, centrato sullo stallo degli scambi causato dalla decisione delle autorità cinesi di vietare l’importazione della droga, ho scritto qui, mentre del terzo e conclusivo capitolo, Diluvio di fuoco, trovate la recensione qui), Ghosh intreccia con abilità destini individuali diversi, ciascuno in qualche modo collegato con il procedere generale dei fatti, e simbolicamente sceglie come palcoscenico per la rappresentazione del suo splendido dramma una nave, il mezzo di trasporto principe per tutti i commerci, in special modo per quelli dell’oppio e degli schiavi. È a bordo questa imbarcazione, la Ibis, una goletta a due alberi agile e veloce, che si ritrovano, come radunati lì da un superiore destino, da un disegno più grande, di cui non sono che particolari, i protagonisti della vicenda, ciascuno sconosciuto agli altri o quasi: Deeti, donna fiera di umilissime origini chiamata a un futuro che va ben al di là di lei, Kalua, gigantesco nel fisico e nobile nei sentimenti, compagno di villaggio di Deeti, Zachary Reid, figlio di una schiava liberata del Maryland imbarcatosi in cerca di pane e di emozioni, Neel, ricchissimo raja caduto in disgrazia a causa delle ardite speculazioni finanziarie del padre e del proprio colpevole disinteresse verso di esse, Benjamin Brightwell Burnham, l’armatore della Ibis, diventato milionario grazie all’oppio e alla tratta degli schiavi, Baboo Nob Kissim Pander, il contabile di Burnham, chiamato sulla goletta dal dio Khrisna, Paulette Lambert, figlia di un naturalista morto povero, il suo amico d’infanzia Jodu, Serang Ali, capo dei lascari della Ibis e marinaio di consumata esperienza, il giovane Ah Fatt, devastato nel corpo e corrotto nell’anima e nel cuore dalla dipendenza dall’oppio…
Meravigliosamente evocativo nelle descrizioni d’ambiente, suggestivo e pieno di inventiva nella costruzione dei caratteri, efficace, persino arguto quando è necessario, nei dialoghi, Mare di papaveri è un magnifico romanzo, un’opera letteraria ricchissima di dettagli e sfumature (nessuna delle quali priva di importanza), che fa pensare all’ipnotica, trionfale grandezza di un quadro di Bruegel. È una lettura irresistibile.
Eccovi l’inizio. Buona lettura.
Fu in un giorno per il resto normale che Deeti ebbe la visione di una nave dall’alta alberatura in navigazione sull’oceano, e comprese immediatamente che quell’apparizione era un segno del destino perché mai prima aveva visto un’imbarcazione simile, neppure in sogno: e come avrebbe potuto, vivendo nel nord del Bihar, a più di seicento chilometri dalla costa? Il suo villaggio si trovava così all’interno che il mare sembrava distante quanto l’aldilà: era l’abisso di tenebre dove il sacro Gange spariva nel Kala-Pani, “il Nero Oceano”.Accadde alla fine dell’inverno, in un anno in cui i papaveri furono stranamente lenti nello spargere i petali: per chilometri e chilometri, da Benares in su, sembrava che il Gange scorresse tra ghiacciai paralleli, entrambe le sponde infatti erano coperte da una folta distesa di petali bianchi. Era come se la neve delle cime himalayane fosse scesa sulle pianure in attesa della festa di Holi con la sua primaverile profusione di colori.Il villaggio di Deeti si trovava nelle vicinanze di Ghazipur, una città a un’ottantina di chilometri da Benares. Anche Deeti, come tutti nel villaggio, era in ansia per il raccolto. Quel giorno si alzò di buon’ora e sbrigò le solite faccende: predispose dhoti e kameez freschi di bucato per suo marito Hukam Singh, e gli preparò roti e achar per il pranzo. Quando li ebbe avvolti in un panno, sostò un attimo sulla soglia della stanza di preghiera; più tardi, dopo essersi lavata e cambiata, avrebbe celebrato una vera puja, con fiori e offerte; adesso, con ancora indosso il sari da notte, si limitò a una rapida genuflessione congiungendo le mani.