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Una casa, dieci persone, una vittima. E un colpevole

Recensione di “Omicidio a Road Hill House” di Kate Summerscale

Kate Summerscale, Omicidio a Road Hill House, Einaudi

Definire per negazione, o meglio per approssimazione, stilando cioè un elenco di quel che una determinata cosa non è e poi spuntandolo metodicamente voce per voce senza tuttavia esaurirlo, può essere un buon modo per approcciarsi a Omicidio a Road Hill House della scrittrice e giornalista inglese Kate Summerscale, insignito nel 2008 del prestigioso Samuel Johnson Prize.


Non tanto perché il suo lavoro, senza alcun dubbio originale, di grande fascino, di superba eleganza nello stile narrativo e di impeccabile nitore dal punto di vista del registro linguistico, presenti particolari problemi di identificazione (si tratta del resoconto, perfettamente documentato, di un atroce fatto di sangue avvenuto in piena campagna inglese, per la precisione nel Wiltshire, nel giugno del 1860, e della cronaca delle indagini avviate per scoprire il responsabile), quanto piuttosto perché mantenere, nei confronti di questo libro, un atteggiamento che sia il più aperto possibile, evitando una sua sbrigativa, e riduttiva, rubricazione, permette al lettore di apprezzarne per intero la ricchezza dei temi trattati e la capacità d’analisi, di condividerne le suggestioni (così come le ipotesi sul responsabile del delitto formulate tanto dalle persone chiamate a risolvere il caso quanto dalla gente comune), di farsi affascinare dalla particolare atmosfera dell’epoca – quell’inestricabile groviglio di perbenismo esibito con ostentazione e di sotterranee, torbide e spesso distruttive pulsioni che caratterizza l’età vittoriana – di indagare, con l’occhio curioso del voyeur, le dinamiche e gli intrecci familiari degli sfortunati protagonisti della vicenda, il loro indugiare tra luci e ombre, e poi di allargare lo sguardo alla situazione generale e al complesso orizzonte delle relazioni sociali.

Fedele alla regola aurea della sua professione di cronista, Kate Summerscale parte dai fatti (le primissime righe della premessa con cui si apre il volume sono dedicate al tragico accadimento: un omicidio commesso in una casa di campagna inglese nel 1860), ma subito dopo aver delineato i confini entro i quali dovrebbe muoversi la sua ricostruzione, ecco che sorprende il lettore indossando i panni della scrittrice e raccontando quella che è forse la più grande novità dell’epoca, la nascita della figura del detective.

Queste le sue parole: “Il primo investigatore fittizio era apparso nel 1841 nella persona di Auguste Dupin, protagonista di I delitti della rue Morgue di Poe; i primi in carne e ossa furono nominati l’anno seguente dalla polizia londinese. Il funzionario che si occupò dell’omicidio di Road Hill House, l’ispettore Jonathan Whicher di Scotland Yard, era uno degli otto che facevano parte di questa squadra investigativa embrionale”.

Nel soffermarsi sulla figura di Whicher, sulle sue doti investigative, sui numerosi successi colti nel corso della sua carriera (descritti fin nei minimi particolari), l’autrice evidenzia tutto il suo talento letterario: prende per mano il lettore e lo porta alla scoperta di un mondo nuovo, nel quale il crimine si combatte con armi rivoluzionarie, che all’accesa fantasia popolare sembrano infallibili, mentre a intellettuali e celebri romanzieri, come per esempio Charles Dickens, offrono interessantissimi e fecondi spunti narrativi, quando non vera e propria ispirazione (alcuni elementi del delitto di Road Hill House, nota la Summerscale, si ritrovano nell’ultima opera di Dickens, Il mistero di Edwin Drood, sfortunatamente rimasta incompiuta): osservazione attenta, intuito, una viva intelligenza, decisamente superiore alla media e in grado di cogliere, in un ambiente come sul volto di una persona, anche i più piccoli particolari, di dar loro il giusto valore, e di trasformarli in indizi, e in qualche caso addirittura in manifeste prove di colpevolezza.

È in questo sovraeccitato contesto che Whicher, peraltro colpevolmente chiamato sul posto con notevole ritardo, si trova a investigare sull’omicidio commesso a Road Hill House: la vittima, Francis Saville Kent, di soli tre anni, figlio di Samuel Kent, ispettore ai lanifici della zona, e della seconda moglie Mary, viene ritrovata, con la gola squarciata da parte a parte e alcune ecchimosi da percosse sul minuscolo torace, nella latrina del cortile di servizio della casa (un’elegante dimora di tre piani), la mattina di sabato 30 giugno 1860. La polizia di contea, che per prima si occupa del tragico evento, non solo non arriva a nessuna conclusione degna di nota ma trascura più di un indizio, contamina la scena del delitto e non interroga con metodo i sospetti (gli unici possibili per la verità, e cioè le persone di famiglia, i genitori del piccolo e i figli di primo letto di Samuel, oltre al personale di servizio impiegato a tempo pieno e stabilmente presente in casa), così, quando Whicher prende le redini del caso, le possibilità di individuare il responsabile sono ridotte al lumicino.

E qui, di nuovo, l’autrice torna a dare più ampio respiro al suo diligente lavoro di ricostruzione: segue le mosse di Whicher, le conclusioni cui arriva e l’atto d’accusa che formula (che qui per ovvie ragioni ometto), poi si concentra sulle reazioni, in gran parte ostili, suscitate nell’opinione pubblica dal suo procedere, sottolinea come in quel preciso momento storico, in Inghilterra, praticamente nessuno fosse in grado di distinguere, relativamente al lavoro del detective, la concreta realtà dai più arditi voli della fantasia, e restituisce, intatta nelle sue dimensioni tragiche, la misura di un fallimento personale. L’emergere della figura del detective, spiega Kate Summerscale, aveva a tal punto catturato l’attenzione della collettività, ne aveva spinto così all’estremo l’immaginazione, da renderla incapace di guardare alle cose nella loro banale e spesso orribile nudità.

È dunque l’omicidio di Road Hill House in sé a possedere i limpidi tratti del vero e insieme le infinite sfumature della pura invenzione; Kate Summerscale non ha avuto bisogno di inventare, ma è solo grazie alla sua non comune sensibilità, umana e letteraria, se la particolarissima natura di questo caso di cronaca è stata scoperta, spiegata e donata ai lettori.

Eccovi l’inizio del libro. Buona lettura.

Domenica 15 luglio 1860 l’ispettore Jonathan Whicher di Scotland Yard pagò due scellini a un vetturino perché lo portasse da Millibank, appena a ovest di Westminster, alla stazione di Paddington, da cui partivano le corse della Great Western Railway. Qui giunto, comprò due biglietti: uno per Chippenham, nel Wiltshire, a 150 chilometri da Londra (pagandolo sette scellini e dieci pence), e l’altro da Chippenham a Trowbridge, una trentina di chilometri più in là (per uno scellino e sei pence). La giornata era mite: per la prima volta nel corso dell’estate la temperatura aveva superato decisamente i venti gradi.

Paddington era una grande stazione a volta, luccicante di vetro e ferro, costruita sei anni prima da Isambard Kingdom Brunel. L’interno era pieno di fumo e inondato di sole. Whicher la conosceva bene: i ladri di Londra facevano affari in mezzo alla folla imponente e anonima che si agitava nelle nuove, grandi stazioni, tra gli arrivi e le partenze, nel mescolarsi elettrizzante di mille tipi umani, ricchi e poveri. Era questa l’essenza della città, che la squadra investigativa appena creata avrebbe dovuto tenere sotto controllo. Nel quadro di William Frith intitolato La stazione ferroviaria, del 1862, vediamo una panoramica di Paddington in cui non manca un ladro ritratto mentre viene arrestato da due agenti in borghese: tipi vestiti di nero, con bombette e basettone, capaci di confondersi tra la folla e di emergerne per domare le turbolenze della metropoli. 

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