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Gli omicidi, l’eunuco e la storia

Recensione di “L’albero dei Giannizzeri” di Jason Goodwin

recensione - Jason Goodwin, L'albero dei Giannizzeri, Einaudi
Jason Goodwin, L’albero dei Giannizzeri, Einaudi

Istanbul, 1836. Sono trascorsi esattamente dieci anni dallo scioglimento del corpo dei Giannizzeri, fanteria e guardia personale del Sultano e dei suoi beni, la cui rivolta contro Mahmut II, soffocata nel sangue, ha avuto come conseguenza, oltre allo sterminio dei soldati, la cancellazione del loro intero apparato militare e la sua sostituzione con un’altra unità: la Nuova Guardia. Quasi fosse un inquietante memento di questo tragico anniversario, o un messaggio di vendetta recapitato nel cuore stesso del Palazzo del potere, un orribile delitto scuote fin nelle fondamenta l’impero ottomano: una giovane circassa dell’harem, scelta dal Sultano per trascorrere con lui la notte, viene trovata strangolata.


È solo l’inizio di una catena di atroci fatti di sangue di cui nessuno sembra comprendere la ragione. Tutto quel che si sa è che i bersagli della mano o delle mani assassine sono cadetti della Nuova Guardia. Quattro giovani ufficiali, il primo dei quali viene rinvenuto cadavere in un calderone, la faccia tagliata via di netto: un colpo solo, dal mento alla fronte. E se questa barbara, insensata violenza fosse parte di un piano più articolato, teso a colpire Mahmut II e a destabilizzare l’ordine politico della Sublime Porta? O non potrebbe, invece, segnare proprio il ritorno dei tanto temuti Giannizzeri, il cui odioso dominio sulla città era stato spezzato proprio dagli artiglieri di quella che sarebbe diventata la Nuova Guardia? E se al contrario si trattasse solo di un folle? Di un pazzo criminale che colpisce senza avere un piano, spinto solo dal suo delirio, implacabile, e soprattutto inafferrabile? Dilaniati dai dubbi, impauriti, incapaci di affrontare la situazione e timorosi dei suoi possibili sviluppi, gli uomini di governo, i notabili e gli alti ufficiali a capo dell’esercito, su ordine di Mahmut II si rivolgono all’eunuco di corte Yashim, uomo di profonda cultura, allo stesso tempo saggio e scaltro, non estraneo alle logiche spesso perverse del potere ma neppure così implicato in esse da esserne irrimediabilmente corrotto. Tocca a lui indagare il mistero di quelle morti, scoprire quale complotto nascondano (sempre che davvero ne celino uno) e fermarlo prima che sia troppo tardi.

Il “detective ottomano” Yashim nasce dalla fantasia di Jason Goodwin e questa sua avventura, la prima di una serie, viene raccontata in un coinvolgente e convincente mystery storico intitolato L’albero dei Giannizzeri. Il romanzo, pubblicato nel 2006, si è aggiudicato l’anno seguente l’importante premio internazionale Edgar Allan Poe Award. Un riconoscimento più che meritato, e non solo per la complessità dell’intreccio, magistralmente orchestrata, e la precisione della ricostruzione d’ambiente; l’autore, infatti, consapevole di cimentarsi con un genere letterario frequentatissimo (quello del giallo tradizionale), non spreca inutilmente energie nella ricerca dell’originalità a tutti i costi, non punta a sorprendere, ma anzi dimostra un assoluto rispetto per l’architettura narrativa classica, limitandosi, nello sviluppo della trama, a seguire l’evolversi dell’indagine fino allo scioglimento finale. Lungi dall’essere un limite, questo suo modo di procedere è in realtà il miglior viatico possibile alla scoperta del libro e dei suoi notevolissimi pregi; la storia, che prende immediatamente avvio, trascina con sé il lettore, sedotto dal mistero (e anche dalla cruda ferocia degli omicidi, tutti perversi, efferati, e furbescamente descritti nel dettaglio), lo chiama a partecipare alla sua soluzione allo stesso modo in cui viene chiamato Yashim, ed è esattamente come compagno d’avventura di Yashim, come “investigatore aggiunto”, che ha modo di godere, quasi senza accorgersene, delle molte qualità dell’opera: la caratterizzazione di Yashim innanzitutto – raffinato cosmopolita che sa guardare all’Oriente (da cui proviene) e all’Occidente (da cui è affascinato) e alle rispettive culture come a opportunità cui aprirsi e non come alternative dissonanti tra cui scegliere (non a caso, uno dei libri che legge con maggior piacere e profitto è Le relazioni pericolose di Choderlos de Laclos) – attenta, efficace, equilibrata, mai artificiosa, in una parola, credibile, autentica; la descrizione del mondo nel quale si muove ed opera, una realtà in fermento, piena di energia ma anche pericolosamente caotica, illuminata e aperta eppure soffocata dal più cieco misticismo, in bilico tra meditato afflato religioso e potenti derive irrazionalistiche; la capacità di restituire, nelle innocue vesti di un “enigma poliziesco senza poliziotti”, lo spirito di un tempo e soprattutto di un luogo la cui piena comprensione rappresenta ancora oggi, per il mondo intero ma soprattutto per l’Occidente, una prova di maturità, forse la più importante della sua storia.

L’albero dei Giannizzeri, dunque, non è soltanto un ottimo giallo scritto con stile e innegabile talento, così come non si limita, semplicemente, a segnare il felice esordio letterario di un nuovo investigatore; è un libro più profondo, più impegnato, che ha il grande merito di farsi leggere con facilità, di avvincere e anche di divertire, e quello ancora più grande di non concludersi con la scoperta del colpevole. Anche dopo aver chiuso il caso, Yashim continua a parlarci.

Eccovi l’inizio del romanzo. Buona lettura.

Yashim si scacciò un granello di polvere dal polsino.
– Un’altra cosa, marchesa, – mormorò.
Lei lo guardò serafica.
– I documenti.
La marchesa de Merteuil scoppiò in una risatina.
– Flüte, monsieur Yashim, deprivazione non è una parola riconosciuta dall’Académie – Agitò il ventaglio e da dietro aggiunse, quasi in un sibilo: – È una condizione mentale.
Yashim già sentiva che il suo sogno stava per infrangersi.
La marchesa aveva pescato un documento dalla scollatura e lo batteva sul tavolo come un piccolo martello. Yashim lo osservò più da vicino, In effetti era un piccolo martello.
Toc, toc, toc.
Yashim aprì gli occhi e si guardò intorno. Lo Chateau de Merteuil si dissolse alla luce della candela. Le ombre occhieggiarono da sotto gli scaffali tappezzati di libri e dagli angoli della stanza – una stanza e mezza, per la precisione, dove lui abitava da solo, in un palazzo di Istanbul. L’edizione rilegata in pelle de Le relazioni pericolose gli era scivolata in grembo.
Toc, toc, toc.
– Evet, evet, – borbottò. – Un attimo, arrivo -. Si infilò un mantello sulle spalle, un paio di pantofole gialle ai piedi e raggiunse la porta ciabattando. – Chi è?
– Sono il paggio.
Caspita che giovincello, osservò Yashim, lasciando entrare il vecchio rinsecchito nella stanza buia. La candela sgocciolò a causa della corrente improvvisa e le loro sagome, proiettate sulle pareti, lottarono finché l’ombra del paggio non trafisse quella di Yashim con un pugnale estratto all’improvviso. Yashim prese il rotolo di carta e diede un’occhiata al sigillo. Cera gialla.

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