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Il passato dei fatti, la memoria degli uomini

Recensione “La storia” di Elsa Morante

recensioone - la storia- elsa morante
La storia, Elsa Morante, Einaudi

Difficile affrontare un’opera a buon diritto entrata nel novero dei grandi capolavori della letteratura e di cui si parla come di una lettura irrinunciabile. Difficile approcciarla, persino se ci si limita a raccontarne banalmente la trama, tanto è universalmente nota; arduo, insomma, esserne all’altezza.


D’altro canto, soprattutto con i libri accade spesso che “quel che tutti conoscono”, quel che è “impossibile non leggere”, sia stato letto davvero in ben pochi casi; così, anche occuparsi di un romanzo famosissimo qual è La storia di Elsa Morante può rivelarsi un esercizio non sterile.

Scritto in tre anni, dal 1971 al 1974, e ambientato a Roma durante il secondo conflitto mondiale e nell’immediato dopoguerra, questo splendido lavoro non narra soltanto l’odissea di una famiglia (quella formata dalla vedova trentasettenne Ida Ramundo, di professione maestra elementare, da suo figlio adolescente Nino e dal piccolo Giuseppe, nato proprio nel 1941, quando il romanzo prende avvio, in seguito a una violenza sessuale subita da un giovane soldato tedesco di nome Gunther), si allarga alla descrizione delle difficili condizioni di vita della popolazione, si sofferma sui patimenti causati dalla guerra, sulla miseria diffusa, sugli orrori incancellabili e irrimediabili che ogni scontro bellico porta con sé.

Pur senza mai trascurare i componenti di quella famiglia, indiscussi protagonisti del romanzo, né allontanarsi troppo dal loro punto di vista, l’autrice si misura con l’eredità del passato intesa come memoria condivisa, come patrimonio (più spesso fardello) comune: compone un affresco nel quale i destini individuali non sono che parti di un tutto, e lo fa tolstojanamente, esponendo all’impietosa luce della realtà dei fatti un tragico momento di storia, e insieme a esso la vita di coloro, uomini, donne, bambini, che ne hanno fatto parte.

Il dolente realismo della scrittura di Elsa Morante, il suo stile caratterizzato da sobrietà assoluta, da un’umanissima condivisione della sofferenza descritta, sembra farsi cronaca nel mero dettaglio del succedersi degli accadimenti (la scrittrice romana non permette distrazioni al lettore; la sua “storia” è lo svolgersi della storia, e questo svolgersi lei lo richiama con forza al principio di ogni nuovo capitolo, il cui titolo coincide con l’anno in cui succedono determinate cose, che si apre con un riassunto dei fatti di maggior rilievo divisi nell’arco dei dodici mesi), ma questo, per quanto importante, è solo un aspetto, e il più estrinseco, dell’opera. Ne La storia, infatti, quel che accade è semplice materiale narrativo; nei confronti di ciò che è stato Elsa Morante ha solo il dovere della precisione documentaristica, dell’esattezza dello studioso (che soddisfa pienamente nelle aperture dei capitoli citate in precendenza); il cuore del romanzo è altrove, nelle persone, nei loro sentimenti, nelle azioni che compiono, in quel che sognano, desiderano, nelle faticose parole con cui cercano di esprimere se stessi e nei silenzi nei quali cercano rifugio; e ancora nella pietà laica che la Morante dimostra per ognuno di loro, nello sguardo limpido, sincero e commosso che sa offrire a destini privi di speranza, a esistenze segnate dalla sconfitta.

Esistenze come quella di Giuseppe, figlio di una violenza balbettante e timida, di un bisogno d’amore che per vergogna di sé è divenuto rabbia; del fratellastro Nino, fascista quasi per gioco, per spavalderia, e poi partigiano pronto a tutto nella violenza insensata e brutale dello scontro fratricida che ha portato l’Italia alla Liberazione; della loro madre, il cui argine alle durezze e alle asprezze della vita, nobile e disperato, giorno dopo giorno va incontro al proprio ineluttabile disfacimento; del giovane anarchico Davide Segre, talmente oppresso dal dolore da trovare scampo solo nell’illusione della droga, nella dose, destinata ad aumentare impercettibilmente di volta in volta.

La storia è un bellissimo romanzo. La vicenda che racconta è dura, straziante, e non lascia spazio alla speranza. Tuttavia non è priva di calore e non si chiude nel più cupo pessimismo. Perché i vinti cui Elsa Morante dà voce non dimenticano, neppure per un istante, la loro umanità. Spogliati di tutto, privati della vita, del battito del cuore e del respiro, conservano la propria anima. E forse, suggerisce l’autrice, esistere non è che questo; conservare, nel breve tratto di cammino che dobbiamo fare, la nostra anima. O almeno provare a farlo.

Se non l’avete ancora fatto, leggete La storia.

Eccovi l’inizio. Buona lettura.

Un giorno di gennaio dell’anno 1941, un soldato tedesco di passaggio, godendo di un pomeriggio di libertà, si trovava, solo, a girovagare nel quartiere di San Lorenzo, a Roma. Erano circa le due del dopopranzo, e a quell’ora, come d’uso, poca gente circolava per le strade. Nessuno dei passanti, poi, guardava il soldato, perché i Tedeschi, pure se camerati degli Italiani nella corrente guerra mondiale, non erano popolari in certe periferie proletarie. Né il soldato si distingueva dagli altri della sua serie: alto, biondino, col solito portamento di fanatismo disciplinare e, specie nella posizione del berretto, una conforme dichiarazione provocatoria.

Naturalmente, per chi si mettesse a osservarlo, non gli mancava qualche nota caratteristica. Per esempio, in contrasto con la sua andatura marziale, aveva uno sguardo disperato. La sua faccia si denunciava incredibilmente immatura, mentre la sua statura doveva misurare metri 1,85, più o meno. E l’uniforme – cosa davvero buffa per un militare del Reich, specie in quei primi tempi della guerra – benché nuova di fattura, e bene attillata sul suo corpo magro, gli stava corta di vita e di maniche, lasciandogli nudi i polsi rozzi, grossi e ingenui, da contadinello o da plebeo.

Gli era capitato, invero, di crescere intempestivamente, tutto durante l’ultima estate e autunno; e frattanto, in quella smania di crescere, la faccia, per difetto di tempo, gli era rimasta ancora uguale a prima, tale che pareva accusarlo di non avere neanche la minima anzianità richiesta per l’infimo suo grado. Era una semplice recluta dell’ultima leva di guerra. E fino al tempo della chiamata ai suoi doveri militari, aveva sempre abitato coi fratelli e la madre vedova nella sua casa nativa in Baviera, nei dintorni di Monaco.

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