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Il commovente sogno di Tartarino

Recensione di “Tartarino di Tarascona” di Alphonse Daudet

Alphonse Daudet, Tartarino di Tarascona, BUR
Alphonse Daudet, Tartarino di Tarascona, BUR

Sognatore malinconico al pari del Don Chisciotte di Miguel de Cervantes, arrendevole nella sua ingenuità come il candido Samuel Pickwick di Charles Dickens, Tartarino di Tarascona, tragicomico personaggio nato dalla fantasia di Alphonse Daudet, incarna il fascino irresistibile dell’immaginazione, il desiderio, che è di tutti gli uomini, di abbandonare, anche solo per un momento, la propria vita e il suo incolore scorrere per entrare nel regno magico della fantasia e divenire finalmente altro da sé, l’eroe indomito, il fiero cavaliere, l’invincibile campione… figure raccontate in decine di libri, lette, amate e a tal punto idealizzate e interiorizzate da essere ormai quasi una seconda natura.


Tartarino ha l’anima e il cuore della Provenza, appare sanguigno di carattere, ma i suoi atteggiamenti non sono che posa; nella gestualità arruffata, così come nel colorito motteggio, egli costantemente si sforza di assomigliare a quel che vorrebbe essere, cerca di impressionare, di lasciare un segno. La sua sete d’avventura, raccontata con spensierata vivacità, con la furba leggerezza di linguaggio di una burla, conquista il lettore e lo muove al riso, un riso che sgorga con estrema facilità, ora sottile, quasi sommesso, ora trionfante ed eccessivo, ma proprio come accade al Don Chisciotte, la cui umanità non capitola mai, nemmeno di fronte alla più umiliante delle disavventure, anche Tartarino, che ha nel romantico hidalgo di Cervantes (ma in qualche modo anche nella sua goffa spalla) il proprio modello – non a caso, al principio del terzo capitolo del secondo episodio, quando, entusiasta e bellicoso, Tartarino mette piede in Algeria, l’autore si lascia andare a un semiserio omaggio al grande spagnolo quasi declamando: “O Michele Cervantes Saavedra, se è vero ciò che si dice, che cioè nei luoghi dove dimorarono i grandi uomini qualcosa di essi erra e ondeggia nell’aria fino alla fine dei secoli, ciò che restava di te sul lido barbaresco dovette trasalire di gioia vedendo sbarcare Tartarino di Tarascona, questo tipo meraviglioso di francese del Mezzogiorno, in cui si erano incarnati i due eroi del tuo libro, Don Chisciotte e Sancio Pancia – per quanto vesta, senza neppure rendersene conto, i panni del buffone, non cessa di essere persona, e non perde la propria dignità”. 

Certo, il guascone tronfio che non sa fare altro che lamentarsi della noia che da ogni parte lo circonda, soffocandone l’autentica natura, e che agogna farsi cacciatore e braccare, nella selvaggia Africa, nientemeno che il maestoso leone, è senza alcun dubbio una maschera comica, ma la sensibilità di Daudet non si limita a offrire al pubblico un rutilante spettacolo d’intrattenimento, un’esplosione di fuochi d’artificio da festa di paese, compie un passo ulteriore e getta luce su una condizione esistenziale che non è esagerato definire archetipica. Come scrive Giuseppe Sardelli, “Senza l’ignoto […] lo spirito d’avventura si rifugia nel sogno. E Tartarino ce lo dice compiutamente. Perché il suo sogno non nasce tanto dalla lettura di certi libri quanto dal bisogno di quelle letture. Essi servono a tener desto il suo sogno e agguerrito il suo tartarinismo contro la piatta uniformità della vita senza emozioni e senza rischio, di una vita privata del coraggio di esistere […]. Non è quindi il sogno dell’inerzia, ma l’estrema forma di sopravvivenza al naufragio della vitalità in un mondo che ne è la negazione. Purtroppo l’identificazione del sogno con la realtà è pericolosa […]. Un tempo, quando il sogno corrispondeva a una certa realtà, cioè quando era la realtà stessa, ma sognata, sognare l’avventura preparava alla realtà, addestrava lo spirito e il sangue al cimento con la realtà. Oggi che il sogno è la ridotta in cui si rifugia lo spirito di avventura, sognare è scampo dalla realtà, e tradurre il sogno in termini di realtà, per dare un senso alla vita e provare il rischio del coraggio di esistere, può portarci al pianto della disperazione”. 

Proprio come il suo eroe, anche Tartarino si risveglia bruscamente dalle fantasie che ha cullato; l’immaginazione che lo ha sostenuto, così forte da riuscire a nutrire la volontà e a condurlo in Africa, a contatto con le asprezze del mondo (che altro non sono, in fondo, se non incapacità di sognare) va in pezzi, e lascia irrompere disillusione e dolore. È il prezzo che si paga per il semplice fatto di essere vivi: Tartarino, Chisciotte e Samuel Pickwick lo comprendono troppo tardi, troppo tardi si destano dal sogno, eppure, miracolosamente, anche davanti alle macerie delle loro illusioni rimangono se stessi. È questo inestimabile tesoro a renderli immortali. 

Eccovi l’inizio dell’opera. Buona lettura. 

La mia prima visita a Tartarino di Tarascona è rimasta una data indimenticabile nella mia vita. Sono trascorsi dodici o quindici anni da quel giorno, ma ne serbo un ricordo più chiaro che se fosse ieri. L’intrepido Tartarino abitava, a quel tempo, all’entrata della città, la terza casa a sinistra sulla strada di Avignone: una graziosa villetta tarasconese con giardino davanti, terrazzino dietro, muri bianchissimi, persiane verdi, e sulla soglia della porta una nidiata di piccoli savoiardi intenti a giocare alla campana, o stravaccati al sole con la testa sulle loro cassette da lustrascarpe. Di fuori pareva una casa come tante. A nessuno sarebbe mai venuto il sospetto di trovarsi davanti alla dimora di un eroe. Ma, una volta dentro, mannaggia!… Dalla cantina al granaio tutto l’edificio aveva l’aria eroica, perfino il giardino!… Il giardino di Tartarino! Non ce n’era l’uguale in tutta Europa. Non un albero del paese, non un fiore di Francia, ma solo piante esotiche, acacie gommifere, begonie del Sud-America, piante del cotone, cocchi, manghi, banani, palme, un baobab, fichi d’India, cactus, fichi di Barberia, roba da credersi in piena Africa centrale, a diecimila leghe da Tarascona. Tutto, ben inteso, in miniatura; così gli alberi del cocco non superavano la statura delle barbabietole, e il baobab (albero gigante, arbos gigantea) si trovava a suo agio in un vaso di reseda. Ma, tant’è, per Tarascona era una bellezza, e le persone ammesse la domenica all’onore di contemplare il baobab di Tartarino se ne tornavano piene di ammirazione.

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