Recensione di “Fiori ciechi” di Maria Antonietta Pinna
Un racconto lungo, Fiori ciechi, che dà il titolo al libro, seguito da una storia più breve, Probobacter, segna l’esordio letterario di Maria Antonietta Pinna. Prima di parlare del suo scritto, tuttavia, è necessaria una premessa.
Non conosco personalmente l’autrice, è uno dei “contatti” del mio profilo Facebook (così come io, per inevitabile reciprocità, sono uno dei suoi, e mi scuso se quel che dico può sembrare freddo, o peggio sgarbato; non intendo prendere le distanze dal mio resoconto, solo limitarmi a raccontare i fatti per come si sono svolti); tutto quello che so di lei è che le piace moltissimo leggere, scrivere, che ha visitato questo blog e che ne ha una buona opinione. Credo sia per questo motivo che qualche settimana fa, a ridosso della pubblicazione del suo lavoro, mi ha scritto chiedendomi la disponibilità a leggerlo, ed eventualmente a parlarne. Le ho risposto che mi faceva piacere avesse pensato a me, o anche a me, come possibile “recensore” (termine che non amo, preferisco considerarmi un appassionato che cerca di condividere l’amore per le “belle lettere”), che avrei senz’altro letto il libro – l’editore, Annulli, con diligente sollecitudine me lo ha fatto avere nel giro di qualche giorno – ma che non potevo garantirle che l’avrei fatto subito, e soprattutto ho messo in chiaro una cosa, la più importante: Fiori ciechi, proprio come tutti gli altri libri presenti sul blog, avrebbe avuto un suo spazio solo se l’avessi trovato interessante, coinvolgente, piacevole, sorprendente; in una parola, valido. Maria Antonietta si è detta completamente d’accordo; non cercava visibilità gratuita, pretendeva (mi è parso da se stessa prima che dagli altri) che il suo libro meritasse ogni spazio che riusciva a guadagnarsi, che convincesse. Per una fortunata circostanza ho avuto modo di leggerlo prima del previsto, e ne sono rimasto favorevolmente colpito.
Maria Antonietta Pinna racconta con entusiasmo; la sua scrittura è viva, nervosa, eccitata, scorre fluida per immagini e nel suo procedere acquista spessore fin quasi a farsi oggetto. È materia duttile al servizio della fervida fantasia e della capacità immaginativa dell’autrice, e Maria Antonietta Pinna si diverte a plasmarla per dare vita a un’opera “volatile” e instabile come un composto alchemico.
Pur facendo attenzione a costruire una storia, infatti, la giovane scrittrice sassarese evita di renderla riconoscibile, di darle un’identità precisa. Fiori ciechi, avventura d’amore e di guerra, di speranza e dolore ambientata nel regno fantastico di Florandia, è insieme metafora della nostra realtà (e qui, forse, si registra il limite maggiore di Maria Antonietta Pinna, che in più di un’occasione sceglie di sacrificare la notevole ricchezza stilistica della sua prosa con netti richiami alla nostra non felice attualità, lasciandosi andare a denunce rabbiose, senz’altro condivisibili ma purtroppo fuori contesto – “Mangiamo e beviamo finché possiamo mangiare e bere, e riempiamoci le tasche, arraffiamo quel che vogliamo!” sbraita il capopopolo dei garofani rossi alla vigilia di una guerra d’espansione scatenata esclusivamente per motivi d’interesse), agile racconto fiabesco che con misura ed equilibrio trascolora dai toni sognanti di una storia per bambini alle atmosfere inquietanti di una favola nera, ed espediente narrativo che d’improvviso scatta, cancella il mondo vegetale, i suoi splendori e le sue vergogne e lo ricompone sul palcoscenico di un teatro, riducendolo a squallida rappresentazione di un pugno d’attori ridicolmente vestiti di petali e gambi. Ma ecco che lo scenario muta di nuovo e Florandia diviene meta di un viaggio allucinante – di asimoviana memoria scrive l’autrice, citando uno dei grandi classici della letteratura fantascientifica – all’interno di un corpo umano, un viaggio alla ricerca della sola cosa che conti veramente: un’idea.
Fiori ciechi è un’ottima opera prima (anche il racconto che chiude il volume, Probobacter, è riuscito: l’autrice guarda a uno dei tanti problemi endemici del nostro Paese, quello dell’emergenza rifiuti, e costruisce un apologo beffardo e impietoso sul rapporto uomo-natura), brillante, incisiva, indovinata nel disegno dei caratteri ed efficace nell’ambientazione. Non è cosa da poco, specie per un esordio.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
«Nonno Petalo, racconta».
«La fine del mondo. Silenzio denso, palpabile, muto come un mafioso. Non c’è vento. Rais, il Sole, è scomparso nelle limpidità profonde della salsa acqua marina. Gli uccelli non cantano più. Non esistono. Nessun rumore di anima viva. Completa assenza. Vuoto, padrone dello spazio. Vertigine. Gli uomini e quasi tutti gli animali sono morti, fagocitati dal ventre stesso della terra. Quelli che restano sono come di gesso, pietrificati dagli eventi. Non riescono a esprimere alcun suono.
L’aria violacea crea un’atmosfera da incubo. Ghiaccio dappertutto. Un freddo terribile, pungente, che rompe le ossa. Peccato che non ci siano quasi più ossa da rompere, soltanto carambole di nuvole viola che si addensano nel cielo. Minacciose, tragiche e irreali. Nessun occhio può vederle, semplicemente perché non ci sono occhi. Non ci sono neppure angeli o demoni come ci si sarebbe aspettati. Dio non si vede da nessuna parte e neppure fa sentire la sua voce. Gaia, la Terra, freme di soddisfazione per aver annientato la razza umana. Stanca dell’idiozia di quei ridicoli animali a due gambe, ha agito. Dapprima tremiti leggeri, insistenti sussulti. Poi si è aperta in due e ha inghiottito tutto, senza distinzione. Quindi si è richiusa, non senza provare dolore. Il sangue innocente degli animali è stato sacrificato, ma non c’era nient’altro da fare, purtroppo. Rais, terrorizzato, continua a nascondersi. Gaia, sua amante, lo chiama. Per giorni egli evita di farsi vedere. Ha paura. Consente a Frost, il ghiaccio, di mordere la terra. Lei non si sottrae al freddo abbraccio. Il Sole, pazzo di gelosia, rispunta, scaccia le nuvole e si fa grande nel cielo. Con tutta la forza di cui dispone cerca di combattere contro il rivale e di strappare la sua amante di sempre da quel freddo amplesso. Rosso di rabbia, scioglie Frost e scalda la terra. Dai loro amori nasce un piccolo garofano».