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Essere uomini o non esserlo. Senza vie di mezzo o scorciatoie

Recensione di “Uomini e no” di Elio Vittorini

recensione - Elio Vittorini, uomini e no, Mondadori
Elio Vittorini, Uomini e no, Mondadori

Testimonianza e analisi, registrazione dei fatti e loro interpretazione, cronaca storica e riflessione intimista, Uomini e no, capolavoro di Elio Vittorini, si può considerare, per struttura e scelta linguistica, quasi un romanzo sperimentale. L’opera, ambientata a Milano nel 1944, racconta la lotta partigiana di Enne 2, capitano dei Gruppi d’Azione Patriottica, cellule combattenti impegnate nella resistenza alle truppe nazifasciste, ma le sue gesta, gli attentati e le sanguinose rappresaglie scatenate per vendetta dai militari tedeschi, pur essendo il fulcro della narrazione, non la esauriscono.


Accanto alla tragedia della guerra, infatti, alla disumanità dell’odio e della cieca volontà di annientamento, che trasformano le persone nel loro opposto (e qui troviamo la prima, possibile chiave di lettura dello splendido titolo del romanzo), si consuma il dramma personale di Enne 2, scandito dal suo infelice amore per Berta, donna sposata che, pur corrispondendo la passione di lui non trova la forza per abbandonare il marito e finisce per rovinare tutto, condannando, oltre a se stessa, anche l’amato, che decide di sacrificare la propria vita in un’ultima, disperata missione (“Sembra che io abbia un incantesimo in te”, confessa l’uomo a Berta durante un loro incontro, “che io debba vederti quando sono al limite. Quando ho voglia di perdermi. E quando ti vedo accade il contrario. E questo dico che sembra un incantesimo. Che appena ho raggiunto il limite debba ritrovarti e avere il contrario”). Nel raccontare la guerra, nel descrivere una Milano in rovina, ininterrotto cumulo di macerie fin dove lo sguardo riesce a correre, lo scrittore siciliano si affida spesso all’immediatezza del linguaggio parlato, del discorso diretto. Gli accadimenti, sia quelli estrinseci e terribili degli scontri (gli agguati degli uomini della Resistenza, le risposte violentissime dei soldati), sia le emozioni, le paure, le angosce e le speranze dei protagonisti, vengono proposte al lettore praticamente senza mediazione letteraria: le persone raccontano ciò che hanno fatto, visto, provato, e in tal modo condividono, apertamente e senza finzioni, non soltanto il mero fatto ma la maniera in cui lo hanno vissuto, compreso, interpretato, metabolizzato. Sarebbe un errore considerare questa precisa scelta espressiva di Vittorini esclusivamente dal punto di vista tecnico, perché le parole pronunciate, che sono flusso di coscienza, proprio come le folli logiche di guerra svelano gli uomini (e dunque anche coloro che non lo sono); la dicotomia insanabile tra la responsabilità che comporta “essere qualcuno” e l’abisso morale che caratterizza tutti coloro che “non sono capaci di essere” – il filo rosso che corre lungo tutto il libro – torna in più occasioni in forma di dubbio, ricerca, interrogazione, ed è per questo che l’autore dà voce alle sue creature, per provare a rispondere, attraverso loro, al quesito fondamentale dell’esistenza: ha senso vivere senza essere?

Uomini e no non è un libro politico, né un elogio della Resistenza. Certo, l’autore si schiera a favore della lotta di liberazione e avversa dichiaratamente la barbarie fascista e nazista, ma il suo mondo, abitato in egual misura dagli “uomini” e dai “no”, non è né semplice né scontato. Non basta essere un comandante sanguinario e implacabile come Cane nero – indimenticabili le pagine a lui dedicate, pagine sofferte, potentissime, cariche di indignazione, di rabbia, di disgusto – per meritarsi la vergognosa qualifica di “no”; la viltà di chi vive (verso sé, gli altri, la vita stessa) è una possibilità che alberga in ognuno, un pericolo, spesso una tentazione cui è difficile resistere. Vittorini lo sa, per questo neppure lui si sottrae all’impegnativa prova di un esame di coscienza. Come autore, come scrittore, si assume fino in fondo non soltanto la responsabilità del romanzo, ma interviene in esso, inserendosi nella vicenda con contributi personali (con pagine in corsivo al principio di alcuni capitoli), ragionando, mettendosi a nudo, perfino discutendo – grazie a quella sospensione di ogni ordine razionale che solo la letteratura rende possibile – con i personaggi che ha creato.

Romanzo di eccezionale intensità e di ineguagliabile spessore drammatico, raccontato, oltre che con immenso talento, con rara sincerità, Uomini e no è una di quelle opere “universali” capaci di parlare a ogni generazione. Nell’urgenza della sua ricerca etica, nel suo umanesimo disperatamente urlato, rivendicato malgrado tutto e tutti come unica possibile speranza, come sola via d’uscita (dalla guerra, ma non solo) è un’opera attualissima. Un punto di riferimento dal quale non è possibile prescindere.

Eccovi l’inizio del romanzo. Buona lettura

 
I. L’inverno del ’44 a Milano è stato il più mite che si sia avuto da un quarto di secolo; nebbia quasi mai, neve mai, pioggia non più da novembre, e non una nuvola per mesi; tutto il giorno il sole. Spuntava il giorno e spuntava il sole; cadeva il giorno e se ne andava il sole. Il libraio ambulante di Porta Venezia diceva: «Questo è l’inverno più mite che abbiamo avuto da un quarto di secolo. È dal 1908 che non avevamo un inverno così mite».
«Dal 1908?» diceva l’uomo del posteggio biciclette. «Allora non è un quarto di secolo. Sono trentasei anni».
«Bene» il libraio diceva. «Questo è l’inverno più mite che abbiamo avuto da trentasei anni. Dal 1908».
Egli aveva perduto il suo banco nei giorni della distruzione di agosto; aveva lasciato la città; e non è ritornato a Porta Venezia che al principio di dicembre per poter vedere questo che vedeva: il più mite inverno di Milano dopo il 1908.
Splendeva il sole sulle macerie del ’43; splendeva; ai Giardini, sugli alberi ignudi e sulle cancellate; ed era una mattina nell’inverno; era gennaio. Un uomo si fermò davanti al banco dei libri, portava una bicicletta per mano.
«Buongiorno» il libraio gli disse.
«Buongiorno».
«Che inverno, eh!».
«Che inverno è?».
«È l’inverno più mite che abbiamo avuto da un quarto di secolo».
Si avvicinò l’uomo del posteggio.
«Da un quarto di secolo?» disse. «O dal 1908?».

«Dal 1908» disse il libraio. «Dal 1908».

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