Recensione di “Flatlandia” di Edwin A. Abbott
Si colloca a cavallo di più generi (o forse ne inventa uno proprio, nato dall’incontro tra la divertita efficacia dell’allegoria e la denuncia puntuale e ineludibile dell’utopia negativa) Flatlandia – Racconto fantastico a più dimensioni, bizzarria narrativa del reverendo Edwin A. Abbott pubblicata per la prima volta (in forma anonima) nel 1882.
Probabilmente non sbaglia chi vede in quest’opera, che sposa l’ordinato procedere di uno studio scientifico a una piacevolissima leggerezza espressiva – venata, in più di un’occasione, da sprazzi di preziosa ironia – un’acida satira della società vittoriana, ma questa non è che una delle molte letture possibili, e a ben vedere neppure la più importante. Flatlandia, infatti, proprio come i mondi di cui narra, è un libro costruito sulla complessità, è l’elaborazione di un’ipotesi possibile (il che significa logicamente plausibile) rappresentata in forma di gioco, di garbata provocazione intellettuale.
Una domanda fondamentale, quella sulla natura e i limiti della conoscenza, si cela nel quieto argomentare di Abbott, ed egli la pone al lettore con cautela, ma anche con decisione; così, in una sorta di gioiosa riproposizione del platonico mito della caverna, presenta un mondo nel quale esistono due sole dimensioni, dove ogni cosa è piatta e non esiste la possibilità di concepire una terza dimensione (l’altezza), e dopo averlo fatto introduce in questa realtà un solido ad annunciare l’esistenza dell’inimmaginabile, quella di una dimensione nuova. Naturalmente, tutti gli abitanti del regno bidimensionale, abituati a credere soltanto a quel che i sensi indicano loro come reale, cioè la presenza tangibile di un universo totalmente piatto, rifiutano di dare ascolto al nuovo arrivato, con ciò dimostrando l’assunto dell’autore (non dichiarato ma comunque manifesto): il vero sapere è prima di tutto disponibilità all’apprendimento, apertura verso ciò che è nuovo, altrimenti si tratta soltanto di erudizione fine a stessa, sterile quando non addirittura perniciosa (e poco importa che il quadrato, protagonista del racconto, seguendo i ragionamenti della sfera tridimensionale finisca per riconoscere la realtà della dimensione sconosciuta, perché nel suo mondo nessuno lo seguirà e lui verrà perseguitato).
Ma Flatlandia non è la sola a brancolare nel buio delle proprie inattaccabili certezze; le complessità dei mondi, infatti, non assicurano la saggezza dei rispettivi abitanti. Se gli elementi tridimensionali possono permettersi di dare per scontata l’esistenza delle due dimensioni (così come quella della singola dimensione) aiutati da null’altro che dalla loro natura, e sembrar così più intelligenti rispetto a forme geometriche più semplici, non per questo riescono a spingersi oltre i confini stabiliti dalla conoscenza sensibile che li guida, e allo stesso modo degli abitanti del mondo bidimensionale non prendono in considerazione l’eventualità di un universo a quattro dimensioni. Abbott, fedele al proprio illuminante sarcasmo, non si avventura in polemiche prese di posizione tese a dimostrare agli ambienti accademici del proprio tempo (facilmente individuabili nelle figure a più di una dimensione, complesse rispetto a quelle che abitano i mondi inferiori eppure fragilissime quanto ad armamentario logico e capacità immaginativa) l’ipotetica esistenza di una quarta dimensione (che la teoria della relatività di Einstein individua nel tempo, variabile indispensabile negli studi astronomici dal momento che, quando entrano in gioco distanze sovrumane e velocità come quella della luce, le leggi fisiche utilizzate per leggere e spiegare fenomeni molto più semplici da sole non sono più sufficienti), bensì procede a una spassosa reductio ad absurdum.
Come in un viaggio a ritroso nel tempo, lo scrittore e saggista inglese (che fu anche ottimo insegnante) porta le sue forme geometriche a contatto non con universi maggiormente articolati di quelli nei quali vivono ma con realtà più semplici, e li mette a confronto con gli elementi di cui sono costituiti, ed ecco che quel che per una forma a due dimensioni è l’ovvio e il vero, per una a dimensione unica è pura follia. Quando il quadrato, cittadino di Flatlandia, si addormenta alla fine di una giornata in gran parte trascorsa “ricreandosi con la geometria” ecco che in sogno visita Linelandia, terra a una sola dimensione, ne incontra il sovrano e ha con lui un vivacissimo scambio di opinioni; e al sovrano che contesta ogni sua “bidimensionale affermazione” – “Voi mi chiedete di credere che vi è un’altra Linea oltre quella indicata dai miei sensi, e un altro moto oltre quello di cui mi rendo conto ogni giorno. In cambio, io vi chiedo di descrivermi a parole o di indicarmi col moto quell’altra Linea di cui parlate. Invece di spostarvi, vi limitate a far sfoggio di qualche arte magica per sparire e ritornare visibile, e invece di una lucida descrizione del vostro nuovo Mondo, mi venite semplicemente a raccontare il numero e le dimensioni di una quarantina dei miei sudditi, che sono cose note a ogni fanciullo della mia capitale” – replica stizzito: “Essere abbruttito! Vi ritenete la perfezione dell’esistenza, mentre in realtà siete quanto di più debole e imperfetto ci sia al mondo. Pretendete di vedere, e non vedete altro che un Punto! Vi vantate di dedurre l’esistenza da una Linea Retta; ma io le posso vedere, le Linee Rette, e sono in grado di dedurre l’esistenza di angoli, Triangoli, Quadrati, Pentagoni, Esagoni, e perfino di Circoli. Perché sprecare altro fiato? Vi basti sapere che io sono il completamento del vostro essere incompleto. Voi siete una Linea, ma io sono una Linea di Linee, che al mio paese si chiama Quadrato”.
Al di là dei meriti scientifici del lavoro di Abbott (alcune sue conclusioni sono necessariamente superate e oggi appaiono perfino ingenue), la sua caratteristica migliore è il limpido “controcanto comico” che ne attraversa ogni pagina; si tratta di una forma di maieutica socratica che, con dolce spensieratezza e allo stesso tempo con il rigore stringente di un sillogismo, mette in guardia il lettore: rida pure del dogmatismo di quadrati e linee ma non dimentichi quanto spesso questa intransigenza, falsamente contrabbandata come sapere, sia propria dell’uomo, essere “a tre dimensioni”.
Eccovi l’incipit del racconto. Buona lettura.
Chiamo il nostro mondo Flatlandia, non perché sia così che lo chiamiamo noi, ma per renderne più chiara la natura a voi, o Lettori beati, che avete la fortuna di abitare nello Spazio.
Immaginate un vasto foglio di carta su cui delle Linee Rette, dei Triangoli, dei Quadrati, dei Pentagoni, degli Esagoni e altre figure geometriche, invece di restar ferme al loro posto, si muovano qua e là, liberamente, sulla superficie o dentro di essa, ma senza potersene sollevare e senza potervisi immergere, come delle ombre, insomma – consistenti, però, e dai contorni luminosi. Così facendo avrete un’idea abbastanza corretta del mio paese e dei miei compatrioti. Ahimé, ancora qualche anno fa avrei detto:«del mio universo», ma ora la mia mente si è aperta a una più ampia visione delle cose. In un paese simile, ve ne sarete già resi conto, è impossibile che possa darsi alcunché di quel che voi chiamate «solido». Può darsi però che crediate che a noi sia almeno possibile distinguere a prima vista i Triangoli e i Quadrati, e le altre figure che si muovono come ho spiegato. Al contrario, noi non siamo in grado di vedere niente di tutto ciò, perlomeno non in misura tale da poter distinguere una Figura da un’altra.