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La fragilità di un uomo, l’immortalità di un dio

Recensione di “Prometeo incatenato” di Eschilo

 

Eschilo, Prometeo incatenato, Garzanti
Eschilo, Prometeo incatenato, Garzanti

La conoscenza, offerta agli uomini come atto d’amore, e il sapere, la preveggenza, la capacità di svelare quel che ancora deve accadere, celata con ostinazione a Zeus, sovrano degli dei, despota potente e terribile il cui trono, appena conquistato, vacilla. Si muove lungo queste direttrici il Prometeo incatenato di Eschilo, il primo dei tre grandi tragici greci, simbolo della nobile tradizione classica e della sua eccellenza culturale, politica e sociale.


Parte di una trilogia (i cui rimanenti capitoli sono andati perduti), l’opera è caratterizzata da uno stile severo e implacabile, da scelte linguistiche serrate che tolgono il respiro e procedono ineluttabili verso il definitivo consumarsi del dramma; nel farlo, rispecchiano il carattere dei protagonisti, la fedeltà incrollabile ai rispettivi convincimenti, che, spinta fino alle estreme conseguenze, condanna Prometeo al martirio e Zeus – l’onnipotente Zeus, che con la forza ha strappato lo scettro di  sovrano degli dei al padre e in questa stessa maniera potrebbe perderlo, che tenta in tutti i modi di sapere da Prometeo quel che il destino gli riserverà senza riuscire a violare il suo ostinato silenzio – a un isolamento terribile. Ridotto in ceppi, inchiodato a una roccia sulla costa della Scizia, “all’orizzonte del mondo”, circondato soltanto da “disumani, vuoti silenzi”, Prometeo sconta il peccato della sua compassione, che lo ha spinto prima a istruire gli uomini e poi a donare loro il bene più prezioso, il fuoco. Dinanzi alle figlie di Oceano, giunte per portargli conforto, egli rivendica la bontà del proprio agire: a muovere Prometeo, divinità immortale dell’Olimpo, è stato un sentimento squisitamente umano, riconosciuto come tale e nonostante ciò difeso: “Io li formai:”, afferma il dio, “riflessivi, sovrani del loro intelletto. Narrerò, non a umiliare gli esseri umani, ma a svelare fino in fondo l’affetto che mi dettava quei doni. Anche prima di me guardavano, ed era cieco guardare; udivano suoni, e non era sentire; li vedevi, erano forme di sogni, la vita un esistere lento, un impasto opaco senza disegno; non sapevano case – trame di cotti mattoni – inondate di sole, né il mestiere del legno; l’alloggio era un buco sotterra – come formiche sul filo del vento – nel seno di grotte cieche di sole. Mancavano loro i fissi presagi del gelo che viene, della primavera fragrante, fiorita, del tempo caldo dei frutti. Era tutto un darsi da fare senza lume di mente. Finché io insegnai le autore e i tramonti nella volta stellata: un problema saperli! Fu mia – e a loro bene – l’idea del calcolo, primizia d’ingegno, e fu mio il sistema di segni tracciati. Memoria del mondo, fertile madre di Muse […]. Io che ho ideato tanti congegni per l’uomo non trovo per me uno scaltro pensiero, sollievo al tormento che ora m’assale. È la mia sofferenza!”.

Il dilemma morale che attraversa la tragedia – la responsabilità, l’autonomia dell’agire difesa da Prometeo come irrinunciabile libertà di scelta e considerata da Zeus come spavaldo atto di ribellione (era precisa volontà del signore degli dei che gli uomini vivessero in condizione di estremo bisogno, al pari delle più deboli e indifese tra le creature del regno animale) – non è semplicemente una riflessione sulla condizione umana vestita dei caratteri eterni del mito: perché i personaggi della tragedia di Eschilo (il fiero Prometeo, il collerico Zeus, attanagliato dalla paura riguardo al proprio avvenire, il saggio Oceano, che senza fortuna invita Prometeo al compromesso, a rivelare quel che sa sul futuro e riconquistare così la libertà, Ermes, talmente sazio della propria fedeltà a Zeus da essere privo di una propria personalità), oltre a rappresentare l’orizzonte etico degli uomini (e dell’autore, e della società del suo tempo), sono testimonianza del rapporto di Eschilo con la “fede”, con la componente superumana, determinante in tutta la cultura greca. La passionale crudeltà di Zeus, figlia dei suoi timori, racconta di un dio ancora “bambino”, immaturo, ben diverso da quello che comparirà in altre tragedie, ancora potente e vendicativo ma consapevole della propria forza e del proprio ruolo di guida degli dei e degli uomini, mentre la determinazione di Prometeo, il coraggio con cui affronta il supplizio, se da una parte spinge il pubblico (e oggi il lettore) a “solidarizzare con lui”, dall’altra svela un carattere in cui l’istinto, e dunque l’irrazionalità, domina su tutto il resto. Siamo dunque di fronte a una teologia indefinita, specchio di una coscienza inquieta, limpida nel giudicare il giusto e l’ingiusto eppure insicura, e in questo profondamente umana, e attuale.

Per chi si avvicina per la prima volta a Eschilo, Prometeo incatenato è probabilmente la lettura migliore; i temi centrali della sua produzione (specialmente il rapporto tra colpa e punizione) alimentano la narrazione dal principio alla fine e il linguaggio è evocativo, trascinante. Come gli dei che mette in scena, Prometeo incatenato è un’opera immortale, ed è universale, come le passioni su cui si interroga.

Eccovi, invece dell’incipit, parte del monologo di Prometeo nel primo episodio, nel quale il dio racconta la propria disgrazia. Buona lettura.

È una fitta, per me, il puro parlare di questi miei casi. Ma anche il silenzio trafigge: cerchio sinistro, fatale! Fu subito quando gli dei, collerici, presero a odiarsi. Montava tra loro il contrasto: chi era ansioso di scuotere Crono dal seggio, sperando che Zeus – lui, certo – divenisse monarca; negli altri una contraria passione: che mai nel tempo Zeus fosse principe in mezzo agli dei. In quell’ora io suggerivo ai Titani, figli di Oceano e di Terra, la scelta più accorta. Non seppi farmi ascoltare. Non dettero peso alla scaltra malizia, sicuri – ferrea arroganza! – di poter essere loro i padroni, d’impeto, sciolti da ogni fatica. Mia madre, Temi – O Gea: ha una sola figura, ma titoli vari – più d’una volta m’aveva predetto, ispirata, il domani, com’era destino finisse. Era fatale: sarebbe emerso al potere chi non contava nulla sullo sforzo bruto, ostinato, ma sulla malia insidiosa. Ed io, ragionando, volevo guidarli: neppure un’occhiata da loro, per tutta risposta. Erano i miei ostacoli, allora. Scelsi come meglio pareva: tenermi vicino mia madre e offrirmi, franco, alla franca alleanza di Zeus. Io l’ispiravo, e ora la fossa, il gorgo nero di Tartaro inghiotte Crono, creatura d’altri tempi, e con lui i suoi scudieri. Ecco il frutto, che il divino despota ha goduto da me: ed ecco l’atroce riscatto con cui mi liquida ora!

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