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Il Trecento di Boccaccio, realtà d’oggi

Recensione di “Decameron” di Giovanni Boccaccio

 

Giovanni Boccaccio, Decameron, Mursia
Giovanni Boccaccio, Decameron, Mursia

Dalla città di Firenze, flagellata dalla peste, dieci giovani di elevata condizione sociale (sette uomini e tre donne) fuggono e trovano rifugio in campagna. Qui, per ingannare il tempo e trovar diletto nel reciproco stare insieme, decidono di raccontare ciascuno una novella; fissato un preciso rituale, che prevede l’elezione quotidiana di un “re” cui spetta decidere il tema dei racconti, ecco che la narrazione comincia.


Così nasce, con un intreccio che sembra non voler tracciare distinzioni nette tra il dramma rappresentato dall’esplodere dell’epidemia e la gioiosa, quasi impertinente leggerezza dei compagni d’avventura, il Decameron di Giovanni Boccaccio, uno dei massimi capolavori della storia della letteratura.

Ironia, beffa, provocazione, divertita licenziosità e motteggio arguto, carnevaleschi travestimenti del reale, danno misura e respiro alle cento storie che compongono questa meravigliosa opera, non a caso definita dall’autore “Prencipe Galeotto”; osservatore attento delle “cose del mondo”, Boccaccio affida alla pagina scritta e a uno stile travolgente, irrefrenabile, ricchissimo di invenzioni e tagliente fino alla perfidia nella costruzione dei caratteri le proprie impressioni; i suoi giudizi sulla natura degli esseri umani sfumano nell’irrisione, nella presa d’atto (solo apparentemente rassegnata) della loro sostanziale mancanza di innocenza.

Gli equivoci, gli inganni, i tradimenti, le passioni d’amore spinte all’estremo, il cui epilogo spesso scatena il riso, trasformando l’audace agire dei personaggi in un patetico, fanciullesco, girotondo d’appetiti, raccontano le debolezze degli uomini per quel che sono, e se è vero che questo procedere non offre alcun tipo di consolazione o salvezza (perché non l’edificazione morale interessa l’autore, ma il puro entusiasmo del narrare, in sé spontaneo e vero), è altrettanto vero che non manca mai una sincera partecipazione alle disavventure vissute dai diversi protagonisti.

Nella consapevolezza di non poter “guarire” le persone dai loro mali, Boccaccio, uomo tra gli uomini, parla di loro nello stesso modo in cui parlerebbe di se stesso, riconoscendosi schiavo della propria natura: a questo proposito scrive Cesare Segre, nella prefazione al testo pubblicato da Mursia, che “la ricchezza di avviamenti stilistici, oltre a denotare l’intensità con cui lo scrittore si adegua, «simpatizzando», ai vari livelli di umanità sui quali si distribuiscono le novelle, viene a misurare, nel suo complesso, le dimensioni di un’area vitale completamente coperta.

Non più, insomma, una scelta tra «commedia» e «tragedia» (nel senso medievale), o la preminenza di uno dei due indirizzi, bensì una visione in cui «commedia» e «tragedia» costituiscono i due estremi a cui si può spingere, con infinite variazioni intermedie, l’azione dell’uomo. Si coglie qui la modernità dello scrittore: perché la riduzione di questi due estremi dell’avventura terrestre su uno stesso piano implicava da un lato l’attenuazione di una gerarchia classistica rigida – in base alla quale l’appartenenza a un dato ceto predisponeva quasi a una data dignità di comportamento -; dall’altro, anche, l’esautorazione degli ideali trascendenti, la cui presenza non può non ordinare a sé, nella misura in cui ne portino più o meno visibile il segno, le azioni individuali”.

Libero dal dovere morale dell’esempio e dall’ossequio alla fede (intesa come imitazione, nella vita terrena, del modello cristiano), Boccaccio non pone freni alla virulenza del proprio sarcasmo: misurando ogni cosa attraverso l’uomo e le sue molteplici imperfezioni, scardina ogni verità, viola ogni dogma, rovescia ogni ordine costituito, arrivando a toccare il cuore del vero. È uomo frate Cipolla, per questo non stupisce né suscita scandalo che prometta “a certi contadini di mostrare loro la penna dello agnolo Gabriello; in luogo della quale trovando carboni, quegli dice esser di quegli che arrostirono San Lorenzo” (decima novella della quinta giornata), e allo stesso modo sono uomini (cioè carne) frate Rinaldo, che “si giace con la comare; truovalo il marito in camera con lei, e fannogli credere che egli incantava i vermini del figliocco” (terza novella della sesta giornata), un monaco, che “caduto in peccato degno di gravissima punizione, onestamente rimproverando al suo abate quella medesima colpa, si libera della pena” (quarta novella della prima giornata), e Masetto da Lamporecchio, che “si fa mutolo e diviene ortolano di un munistero di donne, le quali tutte concorrono a giacersi con lui” (prima novella della terza giornata).

Opera modernissima, profonda, liberatoria, dissacrante e saggia, il Decameron non è soltanto un capolavoro, è una lettura imprescindibile. Perché il trascorrere dei secoli non ha cambiato quasi nulla, e il Trecento di Boccaccio, per molti versi, è ancora il nostro mondo.

Eccovi l’inizio del proemio. Buona lettura.

Umana cosa è l’aver compassione agli afflitti; e come che a ciascuna persona stea bene, a coloro è massimamente richiesto li quali già hanno di conforto avuto mestiere, e hannol trovato in alcuni: fra’ quali, se alcuno mai n’ebbe bisogno, o gli fu caro, o già ne ricevette piacere, io son uno di quegli. Per ciò che, dalla mia prima giovinezza infino a questo tempo oltre modo essendo stato acceso d’altissimo e nobile amore, forse più assai che alla mia bassa condizione non parrebbe, narrandolo io, si richiedesse, quantunque appo coloro che discreti erano e alla cui notizia pervenne io ne fossi lodato e da molto più reputato, nondimeno mi fu egli di grandissima fatica a sofferire, certo non per crudeltà della donna amata, ma per soperchio fuoco nella mente concetto da poco regolato appetito: il quale, per ciò che a niuno convenevol termine mi lasciava contento stare, più di noia che bisogno non m’era spesse volte sentir mi facea. Nella qual noia tanto rifrigerio già mi porsero i piacevoli ragionamenti d’alcuno amico e le sue laudevoli consolazioni, che io porto fermissima oppinione per quello essere avvenuto che io non sia morto.

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