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Verso l’abisso del desiderio

Recensione di “Doppio sogno” di Arthur Schnitzler

Arthur Schnitzler, Doppio sogno, Adelphi
Arthur Schnitzler, Doppio sogno, Adelphi

Poggia su fondamenta semplici e solide la vita del giovane e affermato medico Fridolin: un matrimonio felice, una figlia amatissima, floride finanze e una riconosciuta rispettabilità. Le certezze da cui è circondato, e che in buona parte si è costruito, lo proteggono, liberandolo da dubbi, insicurezze, paure e angosce.


Dalla propria realtà quotidiana, dalla società (quella viennese del primo Novecento) cui appartiene, capace di esprimere al massimo grado quei valori borghesi di fedeltà e operosità ai quali anch’egli ha conformato il suo agire, Fridolin sa di non aver nulla da temere; la sua serenità non nasce dalla banale mancanza di preoccupazioni materiali, è qualcosa di più profondo, radicato: è tranquillità d’animo, quiete. È consapevolezza, conoscenza del proprio ruolo e del proprio posto nel mondo, in un mondo in cui ogni cosa è al proprio posto.

Protagonista del lungo racconto di Arthur Schnitzler intitolato Doppio sogno, Fridolin è un simbolo; in lui, nel suo rapporto con la moglie Albertine, lo scrittore e medico austriaco analizza l’attività del pensiero, dell’elaborazione cosciente di desideri e rimorsi, e insieme quella parallela e dirompente delle pulsioni inconsce che improvvise e incontrollabili aprono squarci negli ordinati processi della riflessione razionale.

Al principio dell’opera, Schnitzler, maestro d’atmosfere, dipinge un quadro idilliaco (Fridolin e la moglie accarezzano la loro figlia prossima ad addormentarsi) e un attimo dopo lo distrugge. L’accogliente casa della coppia e il loro garbato conversare – che ha per oggetto un ballo in maschera al quale avevano preso parte la sera precedente – svelano il proprio tragico carattere illusorio, e il dolce ritratto di famiglia presentato al lettore svanisce, sostituito da individualità estranee l’una all’altra e in conflitto fra loro. Fridolin e la moglie, turbati da alcune esperienze vissute alla festa, si confrontano, decisi a non nascondersi nulla, a confessarsi le reciproche emozioni, ma al di là delle rispettive volontà qualcosa di più potente emerge e prende il sopravvento: la coscienza del desiderio. Al ballo in maschera, infatti, e ancor prima, nel corso di una vacanza estiva in Danimarca, Albertine e il marito sono stati attratti da altre persone ma hanno nascosto (per primi a se stessi) il loro turbamento; nel momento in cui scelgono di confessarselo, si rendono conto sgomenti che la verità non solo non offre catarsi ma si fa travolgere dal caos emotivo che scatena. I due coniugi si scoprono gelosi, vendicativi, e soprattutto desiderosi di rendere concreti gli appetiti che li divorano. E nella irriducibile dicotomia tra sincerità e menzogna, realtà e illusione, sogno (quello in cui si svolge l’avventura erotica agognata da Albertine) e veglia (quella allucinata nella quale si consuma il tentato adulterio di suo marito) si dipana il loro dramma psicologico-esistenziale.

Schnitzler racconta la discesa agli inferi di Fridolin e Albertine con lucidità assoluta; il suo interesse per quel che mette in scena è fortissimo ma non c’è traccia di partecipazione nella sua scrittura. La prosa, nitida, precisa, puntuale e coerente evita raffinatezze e preziosismi stilistici per concentrarsi sui moventi più profondi dell’uomo, sulle conseguenze del loro esplodere, sull’essenziale fragilità del reale, dominato dall’instabilità delle passioni personali.

Lo svolgersi della storia, tuttavia, resta tumultuoso e appassionante pur nel prevalere dell’interesse “medico-scientifico” dello scrittore austriaco; nei dialoghi serrati, nelle sapienti descrizioni d’ambiente, nel febbrile sogno d’evasione di Albertine e nello scioglimento finale dell’intreccio, quando marito e moglie decidono di lasciarsi alle spalle le incomprensioni che li hanno quasi condotti alla rottura e di provare a ricominciare, Schnitzler dimostra un talento cristallino e dà vita a un racconto labirintico, spiazzante, fascinoso e conturbante, nel quale miracolosamente convivono l’invenzione e la libertà creatrice della parola e la severa disciplina imposta a una lingua cui tocca il più arduo e splendido dei compiti: dare voce all’incessante mormorio del cuore e dell’anima.

Eccovi l’inizio del racconto. Buona lettura.

«Ventiquattro schiavi mori spingevano remando la sfarzosa galera che doveva portare il principe Amgiad al palazzo del califfo. Ma il principe, avvolto nel suo mantello di porpora, se ne stava solo, sdraiato in coperta, sotto l’azzurro cupo del cielo notturno disseminato di stelle e il suo sguardo…».

La piccola aveva letto fin lì ad alta voce; ora, quasi all’improvviso, le si chiusero gli occhi. I genitori si guardarono sorridendo. Fridolin si chinò su di lei, le baciò i capelli biondi e chiuse il libro che si trovava sulla tavola non ancora sparecchiata. La bambina lo guardò come sorpresa.

«Sono le nove,» disse il padre «è ora di andare a letto». E poiché anche Albertine si era accostata alla bambina, le mani dei genitori si incontrarono sulla fronte amata mentre i loro sguardi si scambiavano un tenero sorriso, che non era rivolto più solo alla bambina. Entrò la governante e disse alla piccola di dare la buona notte ai genitori; lei si alzò ubbidiente, diede un bacio al padre e alla madre e si lasciò condurre docilmente dalla signorina fuori della stanza. Fridolin e Albertine, ora finalmente soli sotto il chiarore rossastro della lampada, ebbero a un tratto fretta di riprendere la conversazione cominciata prima di cena, su quanto era accaduto durante il ballo in maschera il giorno precedente.

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