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È un corpo nudo e deforme lo spirito dell’uomo

Recensione di “Cecità” di José Saramago

José Saramago, Cecità, Einaudi
José Saramago, Cecità, Einaudi

Una prosa di cristallina bellezza, capace di offrire al linguaggio nuovi orizzonti espressivi; un respiro narrativo potente, a tratti rabbioso, intriso di violenza ma anche di commossa pietà e tradotto in lucida metafora politica, nella dolorosa presa di coscienza dell’abisso morale in cui è sprofondato l’uomo, e ancora nell’appassionata rivendicazione di un’anima ferita, umiliata, schiacciata ma non vinta.

Un’anima che ha ancora forza bastante per lottare per ciò che le appartiene, la definisce, la nutre: un’insopprimibile urgenza di giustizia e verità. L’utopia negativa disegnata da José Saramago in Cecità non ha nome né volto; la tragedia e l’assurdità di quel che accade (un’improvvisa epidemia di cecità) è priva di collocazione geografica (una città qualunque di un Paese qualunque), e allo stesso modo non sono identificabili, se non attraverso comuni segni esteriori (la ragazza con gli occhiali scuri, il medico, il vecchio con la benda nera), i protagonisti del romanzo. Attraverso questa indistinzione – il cui immediato richiamo visivo è la nebbia lattiginosa che caratterizza l’inspiegabile moltiplicarsi dei casi di perdita della vista – lo scrittore portoghese apre la sua opera all’universalità: i personaggi diventano archetipi, il contagio un simbolo (della malattia morale dell’uomo, del proprio colpevole abbandono di se stesso) e la reazione a esso, quella delle persone colpite – volta a volta disperata, rassegnata, furente, ignobile – e soprattutto quella dello “Stato”, degli apparati al potere, che decidono di rinchiudere i ciechi in strutture manicomiali in disuso e di abbandonarli alla loro impotenza, al degrado quasi ferino in cui sono precipitati, un profetico ammonimento.

La prosa di Saramago, intensa, suggestiva, crudele, eccezionalmente reale pur nella costruzione fantastica (quasi favolistica) del romanzo, coinvolge il lettore e lo scuote, lo emoziona, lo travolge: senza allontanarsi mai dall’inequivoca chiarezza dell’impianto metaforico, fondato sulla netta opposizione tra bene e male, giustizia e ingiustizia, verità e menzogna, coraggio e viltà, l’autore spinge la propria riflessione fin nel cuore dell’universo morale dell’uomo e si interroga con impressionante radicalità sulla sua condizione e sulle sue possibilità di salvezza. Nelle pagine centrali del romanzo, talmente crude, forti e autentiche da risultare sconvolgenti, il dramma tocca l’acme: l’ingresso nel manicomio-centro di detenzione di una nuova comitiva di ciechi spezza il fragile equilibrio “sociale” costruito dalle prime persone rinchiuse (tra le quali il già citato medico e sua moglie, che si è finta cieca per poter stare vicino all’uomo che ama): i prigionieri appena giunti, che Saramago si limita a qualificare come “i ciechi della camerata dei malvagi”, con un colpo di mano si impadroniscono dei viveri e costringono gli altri a subire un odioso ricatto: avranno da mangiare, potranno sopravvivere, solo se le donne del loro gruppo si concederanno, se soddisferanno, senza discutere, ogni voglia dei ricattatori.

Violenza, sopraffazione, penosi sussulti di dignità ridotte a brandelli, tentativi di ribellione abortiti prima ancora di nascere, la paura, e la vergogna di provarla, l’orgoglio che goffamente cerca di rialzare la testa, l’orgasmo che regala l’esercizio dispotico del potere, anche del più meschino; Saramago racconta la deriva etica dell’essere umano spogliandola di ogni possibile giustificazione. È un corpo nudo e deforme lo spirito dell’uomo, dichiara l’autore; della carne ha la materialità, la mortalità, il primitivo appetito. La sua innocenza irrimediabilmente perduta, l’istinto di sopravvivenza cui obbedisce (e che lascia spazio solo all’affermazione di sé, costi quel che costi) è l’impietoso specchio della nostra condizione; quando diventeremo ciechi, ogni volta che per qualsiasi ragione lo diventiamo, a prendere il sopravvento è il male che culliamo dentro di noi come un feto malato, o nel migliore dei casi una paralizzante vigliaccheria.

Incisivo, disturbante, ineludibile, il j’accuse di Saramago, testimonianza terribile di quel che siamo, è anche l’unità di misura del suo orizzonte morale; comunista militante (partigiano di quell’idea utopistica e nobile del comunismo che vede nella traduzione pratica del comandamento marxista “da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni” il suo fine ultimo e la sua fondante ragion d’essere), lo scrittore oppone al mondo orfano di compassione che disegna la testarda verità della sua anima (e delle molte anime ad essa affini), incarnata nel romanzo dalla moglie del medico, il solo personaggio scampato all’epidemia. Che vede, dunque, in ogni momento, anche quando non vorrebbe farlo: vede l’uomo, la sua negazione, la sua remota speranza di redenzione.

Cecità è un romanzo fondamentale, un capolavoro anche dal punto di vista stilistico. Leggetelo, vi accompagnerà per il resto della vostra vita.
Eccovi l’inizio del romanzo. Buona lettura.
Il disco giallo si illuminò. Due delle automobili in testa accelerarono prima che apparisse il rosso. Nel segnale pedonale comparve la sagoma dell’omino verde. La gente in attesa cominciò ad attraversare la strada camminando sulle strisce bianche dipinte sul nero dell’asfalto, non c’è niente che somigli meno a una zebra, eppure le chiamano così. Gli automobilisti, impazienti, con il piede sul pedale della frizione, tenevano le macchine in tensione, avanzando, indietreggiando, come cavalli nervosi che sentissero arrivare nell’aria la frustata. Ormai i pedoni sono passati, ma il segnale di via libera per le macchine tarderà ancora alcuni secondi, c’è chi dice che questo indugio, in apparenza tanto insignificante, se moltiplicato per le migliaia di semafori esistenti nella città e per i successivi cambiamenti dei tre colori ciascuno, è una delle più significative cause degli ingorghi, o imbottigliamenti, se vogliamo usare il termine corrente, della circolazione automobilistica.
Finalmente si accese il verde, le macchine partirono bruscamente, ma si notò subito che non erano partite tutte quante. La prima fila di mezzo è ferma, dev’esserci un problema meccanico, l’acceleratore rotto, la leva del cambio che si è bloccata, o un’avaria nell’impianto idraulico, blocco dei freni, interruzione del circuito elettrico, a meno che non le sia semplicemente finita la benzina, non sarebbe la prima volta. Il nuovo raggruppamento di pedoni che si sta formando sui marciapiedi vede il conducente dell’automobile immobilizzata sbracciarsi dietro il parabrezza, mentre le macchine appresso a lui suonano il clacson freneticamente. Alcuni conducenti sono già balzati fuori, disposti a spingere l’automobile in panne fin là dove non blocchi il traffico, picchiamo furiosamente sui finestrini chiusi, l’uomo che sta dentro volta la testa verso di loro, da un lato, dall’altro, si vede che urla qualche cosa, dai movimenti della bocca si capisce che ripete una parola, non una, due, infatti è così, come si viene a sapere quando qualcuno, finalmente, riesce ad aprire lo sportello. Sono cieco.

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