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Fin dove si riesce a guardare. E ancora oltre

Recensione di “Prateria” di William Least Heat-Moon

 

recensione - William Least Heat-Moon, Prateria, Einaudi
William Least Heat-Moon, Prateria, Einaudi

Il viaggio, l’esplorazione, la scoperta, la conoscenza; confini che si espandono fino a scomparire, terre che si spalancano allo sguardo e come in un arcaico rito di iniziazione si offrono nude, mute, splendide e desolate. Luoghi che si raccontano, che rievocano se stessi mormorando come vecchie sagome riunite intorno al fuoco.


Resoconti, storie, miti e ricostruzioni che si fanno eco narrativa, e il respiro della parola scritta che si veste d’infinito e sussurra promesse d’avventura disseminate lungo strade mai battute. Quasi vivesse in un affascinante paradosso, la letteratura di viaggio sembra trovare la propria ragion d’essere nella dimensione del sogno; la sua geografia, intrisa d’emozioni e suggestioni, di richiami alla memoria e inviti all’immaginazione, è prima di tutto un percorso, un pellegrinaggio interiore. Ed è esattamente in questo modo che William Least Heat-Moon presenta al lettore l’esperienza del viaggio, raccontandola come comunione di un’anima con la terra, le sue tradizioni, il suo spirito. Nel suo romanzo più complesso e riuscito, Prateria, lo scrittore statunitense (già autore del sorprendente e bellissimo Strade blu, diario di un “tour esistenziale” nell’America profonda e rurale compiuto attraversando esclusivamente strade secondarie) illumina un microcosmo – la Chase County, un anonimo angolo del Kansas – la cui vita, nella sua rude, semplice immediatezza, traduce la sete sconfinata di sapere, imparare, ascoltare che sta a fondamento dell’idea stessa di abbandono, seppur temporaneo, delle proprie radici, di quel che siamo abituati a chiamare casa.

La prosa di Least Heat-Moon, calda, intensa, meravigliosamente evocativa nelle descrizioni, essenziale e autentica nei dialoghi, svela un mondo ricchissimo, un’inaspettata teoria di meraviglie in paziente attesa (che a saper guardare, suggerisce l’autore, riposa ovunque) : “Tramonto: mi trovo in cima alla Roniger Hill e cerco di immaginarmi sopra una gigantesca mappa degli Stati Uniti. Se si tracciassero due linee fra gli angoli metropolitani dell’America, una da New York City in direzione sud-ovest fino a San Diego e l’altra da Miami in direzione nord-ovest fino a Seattle, la loro intersezione cadrebbe a poche miglia da questo crinale piatto, situato a 155 miglia a sud-est del centro geografico degli stati contigui, a 130 miglia dal punto geodetico (il punto di riferimento da cui prendono origine tutte le carte geografiche del Nord America) e a tre miglia dal centro esatto della Chase County (Contea Chase), Kansas. Se si prendesse una carta geografica di un metro di lato dei quarantotto stati e la si piegasse a metà sia in senso nord-sud che in senso est-ovest, le pieghe si incontrerebbero a un pollice dal punto in cui sono: così è facile rendersi conto che Roniger Hill è quasi al centro della nazione. Ma secondo me questo fatto è soltanto accidentale rispetto al motivo per il quale mi trovo qui. In realtà non so neanch’io perché sono qui, ma la ragione, qualunque essa sia, mi ha spinto a partire da casa e a sgropparmi cinque ore d’autostrada (che diventano otto percorrendo le strade secondarie, costellate di buoni café-food, che attraversano le colline del Missouri). Per anni i forestieri hanno considerato questa prateria desolata, spoglia e monotona, una terra più nuda di qualunque altra o quasi, ma io so che non sono qui per esplorare la vacuità nel cuore dell’America: io sono qui, nel bel mezzo delle Flint Hills del Kansas, in cerca di ciò che c’è, in cerca della terra e di ciò che la plasma, sono qui perché nutro sospetti e oscuri presentimenti di minacce che incombono su tutta l’America: e spero che le dimensioni ridotte di questa contea mi consentano di vederci più chiaro”.

È un viaggio unico e insieme sovrapponibile a qualsiasi altro, identico a quelli compiuti e agli innumerevoli che verranno quello narrato da Least Heat-Moon; un viaggio che è progressiva coscienza di sé, stupefatta scoperta della natura, della sua intrinseca, sovrumana perfezione (tra i molti, indimenticabili momenti del romanzo spiccano quelli dedicati al “melo Osage” o Maclura, pianta nota nel XIX secolo per essere “il miglior legno da archi del Nord America”, e al topo dei boschi) e delle tracce, alcune quasi dimenticate, altre indelebili come cicatrici o gentili e pietose come carezze, lasciate da generazioni di uomini e donne. Le 700 pagine di Prateria sono ben più di unentusiasmante dimostrazione di talento letterario, sono un piccolo miracolo di scrittura. Se amate il genere, leggete questo romanzo. Non ve ne pentirete.

Eccovi l’inizio del primo capitolo. Buona lettura.

Nel 1952, in occasione della mia prima visita alla Chase County, avevo dodici anni e facevo il navigatore accanto a mio padre che guidava la nostra Pontiac Chieftain ornata dallo splendido marchio costituito da una testa indiana cromata svettante sul cofano. (Dietro quel naso aquilino abbiamo viaggiato per mezzo decennio girando quasi tutta l’America). In queste ultime settimane ho cercato nella memoria qualche ricordo di quel primo contatto con le praterie del West. Cosa avevo visto a quel tempo, che cosa avevo provato? Ma poiché oggi, a parte il viaggio di ritorno, non ne conservo alcun ricordo, immagino allora che le praterie mi fossero parse soltanto interminabili miglia da percorrere. In fin dei conti questa è l’impressione che, oggi come sempre, gli Americani provano attraversando il Kansas.

Nel 1965, quando ho finito il servizio militare in Marina e ho attraversato la prateria un’altra volta per andare in California, quelle terre coperte di erba mi son sembrate diverse, vive e proteiformi. Oggi penso che i due anni passati a guardare l’Oceano Atlantico avessero cambiato il mio modo di guardare i paesaggi, soprattutto quelli pianeggianti e ondulati. E ho anche iniziato a considerare le praterie, poco distanti dalla città in cui sono nato, la mia terra natale, e ho cominciato ad amarle non perché attirano l’attenzione come i monti o la costa, ma perché la respingono sfidando la capacità di mantenerla sveglia. All’inizio trovavo duro essere «qui e ora» nelle praterie, ma amavo la chiarezza lineare di un posto che richiedeva da me un apporto, la capacità di aprirsi a esso attivamente: vedere lontano, vedere poco. Così ho imparato un segreto che consiste nel prendere a piccole dosi le distanze allucinanti della prateria e nel riempirsi gli occhi dei piccoli particolari che attirano l’attenzione. A parte l’orizzonte e il cielo, la prateria non concede nulla facilmente, nemmeno l’umidità. Bisogna osservare attentamente le variazioni, i colori, le piccolezze. Non si tratta di imparare a pensare in maniera piatta – raramente le prateria sono piatte – bensì a pensare in maniera aperta e spoglia, a vedere senza l’aiuto di punti di riferimento, a fissare l’orizzonte per ritirare poi lo sguardo a mezzo campo dove sembra che non esista quasi nulla.

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