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Oltre l’impossibile, la realtà svelata dal dolore

Recensione de “L’isola della paura” di Dennis Lehane

Dennis Lehane, L’isola della paura, Piemme

Un thriller tesissimo, labirintico. Un’ambientazione non certo nuova ma comunque di indubbia efficacia (un’isola che ospita un manicomio psichiatrico resa inaccessibile da un uragano) e un finale tanto sorprendente quanto – a pensarci bene – inevitabile. Perché gli indizi, a volerli osservare, sono tutti lì, di fronte al lettore; non resta che coglierli, metterli nel giusto ordine e trarre le conclusioni.

Ne L’isola della paura, con ogni probabilità il più ambizioso dei suoi romanzi, Dennis Lehane costruisce una storia allo stesso tempo avventurosa e angosciante, un mystery claustrofobico e nervoso che, pur reggendosi quasi per intero sulla più che felice caratterizzazione del protagonista, il tormentato agente federale Teddy Daniels, segue con la massima diligenza le regole del genere.

Tutto nella storia ha le dimensioni e i colori dell’incubo, di un delirio, di un allucinato sogno a occhi aperti, eppure l’intreccio mantiene in ogni momento un suo intrinseco rigore; c’è un enigma da svelare, un caso da risolvere, ci sono i poliziotti incaricati di farlo (il già citato Daniels e il suo nuovo collega, Chuck Aule), e soprattutto c’è un principio investigativo impossibile da ignorare che racchiude il senso dell’opera, un principio che Arthur Conan Doyle, il creatore di Sherlock Holmes, mette in bocca al suo eroe e che Lehane dimostra di aver compreso fino in fondo: una volta eliminato l’impossibile, quel che resta, per quanto improbabile, deve essere vero.

“L’impossibile” è la sparizione dal manicomio, l’Ashcliffe Hospital, di una malata, Rachel Solando, rinchiusa in istituto in seguito all’omicidio dei suoi tre figli; siamo nella prima metà degli anni 50, il ricordo degli orrori del secondo conflitto mondiale è ancora vivo (specie nella mente di Daniels, che ha avuto modo di vedere da vicino quel che accadeva nei campi di sterminio nazisti) e gli studi sul comportamento, in particolar modo sull’alienazione, sono in fase di sviluppo, è dunque necessario sperimentare, percorrere nuove strade terapeutiche, osare.

La cura per la pazzia, infatti, potrebbe essere a un passo. Ma qualsiasi ricerca, anche quella animata dalle migliori intenzioni, corre il rischio di degenerare e di trasformarsi in tortura, e forse è proprio questo quel che succede all’interno del “centro” costruito sull’isola, una fortezza impenetrabile (non a caso in origine era un’installazione militare) difesa da guardie armate dove l’Fbi sospetta si utilizzino i pazienti – o meglio, i prigionieri – come cavie per oscuri esperimenti sulla manipolazione mentale.

Daniels, un passato di traumi e dolori con cui fare i conti (oltre alle cicatrici della guerra, l’uomo vive la straziante sofferenza causata dalla morte della moglie Dolores, vittima di un incendio doloso il cui autore, forse, è tra gli “ospiti” del manicomio) e una determinazione a compiere il proprio dovere che niente e nessuno sembra essere in grado di scalfire, è sull’isola per scoprire la verità, per far luce su ogni cosa. La sua missione è chiara: capire se davvero i medici dell’Ashcliffe Hospital si dedichino a esperimenti proibiti, smascherare il piromane responsabile della morte della moglie e naturalmente scoprire che ne è stato di Rachel Solando, la cui sparizione, Daniels ne è certo, è legata a quel che i medici dell’ospedale fanno ai pazienti, ai loro “innovativi metodi di cura”.

Daniels sa che tutti, su quell’isola, sospettano che la sua presenza non si debba soltanto al “caso Solando”, sa di rischiare la sua stessa vita, sa che in gioco c’è molto di più di una paziente svanita nel nulla, così come sa che se non risolverà questo caso non potrà in alcun modo trovare pace, far tacere i fantasmi che lo perseguitano, il ricordo ossessivo della moglie, quello feroce dell’incendiario assassino, quello terribile della morte presente in ogni angolo del campo nazista, quello implacabile della sua realtà, che sembra non essere più in grado di controllare…

La scrittura limpida, potente, incalzante e carica di suggestioni di Lehane avvince dal principio alla fine (a questo proposito merita di venir citata la pregevole traduzione, per Piemme, di Chiara Bellitti); il continuo avvicendarsi di momenti di introspezione psicologica e di tumultuose parentesi di pura azione regala al romanzo un equilibrio narrativo che sfiora la perfezione e che, in un magistrale crescendo di tensione, prepara il lettore alla sconvolgente rivelazione finale. Una rivelazione, è il caso di ribadirlo, già scritta a chiare lettere tra le pagine del libro eppure imprevista, spiazzante, terribile.

L’isola della paura (da cui Martin Scorsese ha tratto un film, Shutter Island, sfortunatamente non all’altezza del romanzo) è un lavoro magnifico. Leggetelo, non lo dimenticherete facilmente.

Eccovi l’inizio. Buona lettura.

Dalle memorie del dottor Lester Sheenan
3 maggio 1993
Per molti anni i miei occhi non si sono posati sull’isola. L’ultima volta ero sulla barca di un amico, si era avventurato nell’avamporto e a un certo punto l’ho vista, laggiù in lontananza, nella foschia dell’estate, uno sbaffo di colore contro il cielo.
Sono più di vent’anni che non metto piede sull’isola ma Emily dice, a volte scherzando a volte no, che è come se non me ne fossi mai andato.
Una volta Emily mi disse che per me il tempo non è altro che una serie di segnalibri infilati nel libro della mia vita e ogni tanto sfoglio le pagine e torno a ripensare a quegli eventi che mi hanno marcato agli occhi dei miei astutissimi colleghi. Tipico comportamento da depresso.
Forse ha ragione Emily. Lei ha spesso ragione.
Fra poco perderò anche lei. Questione di mesi, ci ha detto giovedì il dottor Axelrod. Fate quel benedetto viaggio, ha insistito. Il viaggio che sognate da una vita, Firenze, Roma, e Venezia in primavera. Perché Lester, ha aggiunto, non ti vedo bene per niente.
In effetti non ha torto. In questi ultimi giorni non trovo mai le cose, è come se non portassi gli occhiali. Le chiavi della macchina, per esempio. Sono in un negozio e non mi ricordo perché ci sono entrato, vado a teatro e, quando esco, non so cosa ho visto. Se davvero il tempo per me è composto da tanti segnalibri, allora mi sento come se qualcuno avesse scosso il libro e quelle striscioline gialle di carta cadute per terra, e le orecchie alle pagine fossero state lisciate.

Non scrivo queste cose, adesso, per modificare il libro e apparire così sotto una luce migliore. Non sarebbe possibile, lui non lo permetterebbe. A modo suo, odia le bugie. Anzi, non ho mai conosciuto qualcuno che le odi di più. Ciò che voglio è conservare queste parole, trasferirle in queste pagine, perché la memoria si sta offuscando e tende ad appannarsi.

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