Recensione di “Lo Hobbit” di J.R.R. Tolkien
Nel dar vita al mondo fantastico, la Terra di Mezzo, che serve da ambientazione per i suoi capolavori letterari, Il Signore degli Anelli (di cui ho già scritto in questo blog) e Lo Hobbit, cronologicamente antecedente al primo sia per stesura sia per intreccio, John Roland Reuel Tolkien non si è limitato a costruire uno scenario per le proprie storie, ha creato dal nulla una realtà articolata e complessa quanto quella in cui viviamo, l’ha rappresentata geograficamente con formidabile accuratezza, l’ha popolata con una moltitudine di razze (ciascuna pensata fin nei minimi dettagli, caratterizzata con precisione e presentata al lettore con seducente maestria), le ha dato radici, un passato, una storia condivisa.
Così la Terra di Mezzo e tutti coloro che la abitano, uomini, hobbit (con ogni probabilità la sua invenzione più felice), elfi, nani, stregoni, orchi, reietti come lo sfortunato Gollum (consumato dalla passione per un anello magico forgiato dal Signore del Male Sauron) e regine splendide e sagge come Dama Galadriel, coloro che si adoperano per il bene e coloro che invece agiscono perché a trionfare siano le tenebre, sono ben più che semplici elementi di un mosaico narrativo, tessere di un puzzle, incolori interpreti di un intreccio, burattini obbedienti a ogni capriccio del loro creatore; sono figure dotate di una loro autenticità, di una loro verità, di un’anima.
Tolkien colora d’eroismo l’eterno conflitto tra luce e tenebre; racconta con un entusiasmo quasi fanciullesco e la sua prosa, insieme drammatica e comica, commovente ed epica, al pari di un incantesimo sprigiona una potentissima malia ipnotica e avvince il lettore dalla prima all’ultima pagina.
Tuttavia non è il fascino della scrittura del grande autore britannico, che è stato anche linguista e filologo di tutto rispetto, il merito maggiore de Lo Hobbit (proprio come non lo è de Il Signore degli Anelli); quel che rende quest’opera un romanzo imprescindibile per chiunque ami il fantasy – come pure, sia detto senza paura d’esagerare, un classico della letteratura – è, come già accennato, l’umanità dei suoi protagonisti, la loro essenziale fragilità. A partire dall’hobbit Bilbo Baggins, personaggio principale del romanzo omonimo (che avrà un suo spazio e una sua importanza anche nella trilogia de Il Signore degli Anelli) per arrivare a Gandalf il Grigio, stregone tanto potente quanto impulsivo di carattere, quel che emerge, al di là delle meravigliose e terribili avventure vissute, delle battaglie combattute, dei sacrifici patiti e dei trionfi ottenuti, è l’universo interiore (spesso doloroso e contraddittorio) degli eroi tolkeniani.
Tutto quel che accade (ne Lo Hobbit come ne Il Signore degli Anelli) è infatti frutto di decisioni esplicite, che naturalmente non sono mai facili, hanno un costo, impongono una rigorosa assunzione di responsabilità e segnano, spesso in modo indelebile, le esistenze di coloro che scelgono; è la scelta, dunque, la presa di posizione, il primo e fondamentale atto di coraggio (proprio come accade nella vita di tutti i giorni, quando siamo chiamati, nelle grandi come nelle piccole cose, a percorrere una determinata strada abbandonando le altre), il resto viene di conseguenza.
Ne Lo Hobbit, sarà la scelta di Bilbo di unirsi a Gandalf e a una compagnia di nani, guidati dall’indomito Thorin Scudodiquercia, per affrontare il terribile drago Smog, che nel passato distrusse la loro splendente città sotterranea e si impadronì delle favolose ricchezze lì custodite, a cambiarlo per sempre, a trasformarlo, a insegnargli cose che, senza quell’esperienza non avrebbe mai imparato, proprio come ne Il signore degli Anelli sarà la decisione di Aragorn di accettare il suo destino di re degli uomini (affrontando la paura della sua debolezza, lui, discendente di Isildur, che non seppe resistere al potere dell’anello di Sauron e non lo distrusse, permettendo così al male di riacquistare l’antica potenza) a dare una speranza alla Terra di Mezzo devastata dal caos. Magie, clangore d’acciaio, scontri d’eserciti, foreste in grado di prendere vita, giganti di roccia che nel corso dei loro combattimenti scuotono le montagne fin dalle fondamenta… riccamente vestiti d’immaginazione e fantasia i personaggi di Tolkien conquistano lettori di tutti le età senza smettere di essere, per ciascuno di loro, modelli con cui confrontarsi, specchi in cui riflettersi.
Bellissima avventura senza tempo, Lo Hobbit è un romanzo che ha la dolcezza della fiaba e la forza vitale del mito; leggetelo (oppure, perché no, rileggetelo; l’occasione per farlo ve la offre Peter Jackson, già regista della trilogia cinematografica de Il signore degli Anelli, ora nelle sale con il primo capitolo di una nuova trilogia tratta da Lo Hobbit), e abiterete la Terra di Mezzo. Un privilegio raro.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
In una caverna sotto terra viveva uno hobbit. Non era una caverna brutta, sporca, umida, piena di resti di vermi e di trasudo fetido, e neanche una caverna arida, spoglia, sabbiosa, con dentro niente per sedersi o da mangiare: era una caverna hobbit, cioè comodissima.
Aveva una porta perfettamente rotonda come un oblò, dipinta di verde, con un lucido pomello d’ottone proprio nel mezzo. La porta si apriva su un ingresso a forma di tubo, come un tunnel: un tunnel molto confortevole, senza fumo, con pareti foderate di legno e pavimento di piastrelle ricoperto di tappeti, fornito di sedie lucidate, e di un gran numero di attaccapanni per cappelli e cappotti: lo hobbit amava molto ricevere visite. Il tunnel si snodava, inoltrandosi profondamente anche se non in linea retta nel fianco della collina (o meglio la Collina, come era chiamata dalla gente per molte miglia all’interno) e molte porticine intorno si aprivano su di esso, prima da una parte e poi dall’altra. Niente piani superiori per lo hobbit: le camere da letto, i bagni, le cantine, le dispense (molto numerose), i guardaroba (c’erano camere intere destinate ai vestiti), le cucine, le sale da pranzo, erano tutte sullo stesso piano, anzi sullo stesso corridoio. Le camere migliori erano tutte sul lato sinistro (entrando), perché erano le sole ad avere finestre: finestre rotonde profondamente incassate che davano sul giardino e sui campi dietro di esso, lentamente digradanti verso il fiume.