Recensione di “Il mio nome è Asher Lev” di Chaim Potok
Il talento, l’eccellenza, il genio, la capacità di elevarsi, di distinguersi, di lasciare un segno: dimostrazione del favore di Dio, della sua benigna attenzione, oppure aspro terreno di scontro religioso? Il tema, affascinante e denso di implicazioni, è al centro dell’inteso romanzo di Chaim Potok Il mio nome è Asher Lev, il cui protagonista, un ragazzino di Brooklyn figlio di una coppia di ebrei chassidim (ortodossi e osservanti), dimostra fin da giovanissimo un forte interesse per la pittura.
Quel che inizialmente sembra una predisposizione (pur eccezionalmente felice), in breve tempo si manifesta per ciò che realmente è: una chiara, inequivocabile sensibilità artistica vivificata da un tocco unico, dallo splendore abbacinante del tratto.
Asher Lev è un pittore, tutto in lui è rappresentazione visiva; è attraverso immagini e colori che il ragazzo racconta la propria vita (a partire dal quartiere in cui abita), comunica le esperienze per lui più significative, esprime le sue verità – non a caso, il romanzo si apre con un’illuminante citazione di Pablo Picasso: “l’arte è una menzogna che ci fa comprendere la verità” – ma è qui che cominciano i contrasti con il suo ambiente di riferimento e in primo luogo con la famiglia. Il padre, infatti, attivissimo collaboratore del rabbino capo, uomo dalle grandi capacità organizzative, pragmatico, devoto, per il quale il lavoro (il rafforzamento delle diverse comunità chassidiche sparse per il mondo) coincide a tal punto con l’appartenenza religiosa da essere una forma di traduzione pratica del suo credo, non riesce in alcun modo a capire il proprio figlio.
Secondo la sua prospettiva ogni dono ricevuto dagli uomini proviene da Dio, e così dovrebbe essere anche per Asher, ma come è possibile che abbia carattere divino qualcosa che è manifestamente in conflitto con la fede ebraica, tradizionalmente ostile all’arte figurativa? Così Asher Lev, quasi senza accorgersene, si ritrova prigioniero del mondo che dovrebbe proteggerlo; vorrebbe farne parte e ne è impedito dalla sua natura, desidererebbe fuggirlo per affermarsi come artista ma vive questo prepotente sentire come una colpa. Nel narrare il suo isolamento, Potok non inciampa in banali semplificazioni (l’inevitabile condanna alla solitudine del genio); descrive un doloroso percorso di emancipazione spirituale e nello stesso tempo le resistenze e le chiusure intransigenti di realtà sociali da sempre abituate all’autodifesa, alla custodia severa della propria identità. Il tono dolcemente malinconico della prosa dello scrittore americano (rabbino e cappellano militare durante il conflitto in Corea) affascina il lettore, lo prende per mano e lo conduce alla scoperta della ricchissima, e inevitabilmente contraddittoria, cultura ebraica, sospesa tra cieca obbedienza alla propria storia e timide aperture alla modernità.
Attraverso la storia di Asher Lev l’autore riflette, con limpida onestà intellettuale, sui meccanismi, spesso involontariamente distruttivi, che regolano il funzionamento delle organizzazioni sociali, sul prezzo che è necessario pagare per essere parte di qualcosa, per sottrarsi alla bruciante umiliazione dell’esclusione. Inaspettatamente, il giovane sembra trovare comprensione (e forse persino accettazione della sua scomoda unicità) nel rabbino capo, che gli trova un maestro; insieme alla sua guida, Asher Lev cresce, diventa a tutti gli effetti un artista, viaggia, sperimenta, costruisce un proprio stile, raggiunge la maturità e anche il successo, ma ogni suo traguardo non è che una breve anestesia nella guerra con i genitori (con il padre in particolar modo).
Asher parla un linguaggio che il padre non è in grado di capire e che lui stesso, al di là dei quadri che dipinge, non sa articolare in nessun altro modo; il rapporto tra loro peggiora costantemente, finché la verità cercata da Asher attraverso i suoi dipinti non supera l’ultimo confine. La sofferenza della madre, lacerata tra l’amore per il proprio figlio, quello che nutre per il marito e l’obbedienza cui è chiamata dalla fede e dalle sue regole diventa il soggetto del capolavoro pittorico di Asher Lev, che raffigura le tensioni familiari (e quelle che, proprio a causa della sua vocazione, percorrono la comunità di cui fa parte) nella forma di una crocefissione; nell’appartamento di Brooklyn in cui ha trascorso gli anni della sua giovinezza, Asher colloca la madre, le braccia aperte e le gambe tese legate con la corda delle veneziane in corrispondenza dell’intelaiatura della finestra, il volto segnato dal dolore, e ai suoi piedi, testimoni muti di quel travaglio, lui e il padre. È la consacrazione definitiva per l’artista e insieme il definitivo fallimento per il figlio e per l’ebreo, per la sua volontà, il suo bisogno, di essere accettato.
Il mio nome Asher Lev (che ha un seguito di pari valore letterario, Il dono di Asher Lev) è un libro che cattura, coinvolge, commuove. È una storia amara (ma non disperata) di solitudine, d’amore, d’emancipazione. È un romanzo magnificamente scritto.
Ecco l’incipit. Buona lettura.
Il mio nome è Asher Lev. Sono io l’Asher Lev di cui avete letto nei giornali e nelle riviste, di cui tanto parlate durante le vostre cene di lavoro e ai cocktail, il famigerato e leggendario Lev della Crocefissione di Brooklyn.
Sono un ebreo osservante. Sì, non c’è dubbio, gli ebrei osservanti non dipingono crocefissioni. Anzi, gli ebrei osservanti non dipingono affatto, perlomeno nel modo in cui dipingo io. Perciò si dicono e si scrivono parole grosse su di me, si creano miti: sono un traditore, un apostata, un nemico di se stesso, uno che copre di vergogna la sua famiglia, i suoi amici, la sua gente; ma sono anche uno che si fa beffe di ciò che è sacro per i cristiani, un manipolatore blasfemo di modi e forme che i gentili venerano da duemila anni.
Ebbene, io non sono nessuna di queste cose, anche se, in tutta onestà, devo confessare che chi mi accusa non ha del tutto torto: io sono infatti, in qualche modo, tutte queste cose insieme.
Certo è che pettegolezzi, dicerie, miti e storie sensazionali non sono veicoli adatti a comunicare i mille aspetti della verità, quelle sottili sfumature di tono che spesso costituiscono gli elementi veramente decisivi in una serie di cause. È quindi tempo che mi difenda, che mi dedichi a una lunga opera di smitizzazione. Ma non mi scuserò. È assurdo chieder scusa per un mistero.
Perché questo è stato fin da principio un mistero, del genere che hanno in mente i teologi quando parlano di prodigio e timor panico. Certamente cominciò come un mistero, perché nella mia famiglia non vi erano precedenti che potessero spiegare il dono straordinario e inquietante col quale ero venuto al mondo.