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La seduzione della vanità. Un peccato da mettere in burla

Recensione di “La fiera delle vanità” di William Makepeace Thackeray

William M. Thackeray, La fiera delle vanità, Garzanti
William M. Thackeray, La fiera delle vanità, Garzanti

Un romanzo senza eroi, un ritratto divertito e perfido di un brulicante microcosmo, quello della società inglese nel primo trentennio del XIX secolo. E sullo sfondo il drammatico incalzare della storia, con il definitivo tramonto di Napoleone e il tragico eroismo dei soldati a Waterloo. Nel suo capolavoro, La fiera delle vanità, William Makepeace Thackeray mescola con abilità i toni asciutti e severi del realismo e l’acuta leggerezza della commedia umana, il disciplinato rigore delle descrizioni d’ambiente e l’ironia esplosiva (che in qualche caso giunge fino alla caricatura) del disegno dei caratteri.


Osservatore disincantato del proprio tempo, lo scrittore inglese racconta con stile impeccabile, senza mai sacrificare l’armonia e la piacevolezza della prosa a invettive di carattere etico o a cupe riflessioni sulle umane debolezze. Thackeray, naturalmente, ha simpatie ben precise, è deliziosamente partigiano e non si preoccupa di nasconderlo; magnifico direttore d’orchestra di una vicenda corale, si dedica con sollecitudine d’amante (e di padre) ai propri personaggi, soffermandosi tanto sulle loro peculiarità fisiche quanto sul loro profilo morale.

Solare ed entusiasta nel narrare le avventure di Rebecca “Becky” Sharp – l’eroina indiscussa del romanzo – ammirato, quasi fosse un semplice spettatore, dall’astuta determinazione con la quale la giovane cerca di raggiungere ricchezza e rispettabilità, l’autore scivola con dolcezza nel chiaroscuro di accenti intimisti e romantici quando sposta l’attenzione su Amanda Sedley, amica e contraltare dell’esuberante Becky, incapace di pensare ad altro che al matrimonio con l’uomo cui è stata promessa fin da giovanissima; si concede la libertà del sarcasmo raffinato nei confronti del fratello di lei, Joseph Sedley, volgare d’aspetto e decisamente troppo ingenuo per comprendere le cose del mondo (e nonostante ciò così vanesio da scadere nel ridicolo), per poi concentrarsi su vizi e piccole miserie quando introduce sulla scena Pitt Crawley, personalità dalto lignaggio consumata dalla propria grettezza.

Uomo tra gli uomini, Thackeray trae e dispensa piacere dall’atto puro della scrittura, dalla meravigliosa semplicità di una storia da condividere; nella sua fiera delle vanità alla fine ogni cosa si rivela un gioco, e le trame di uomini e donne per conquistare il successo mondano null’altro che un indaffarato, insensato sacrificio di sé. Le tragedie dell’esistenza, sembra dirci l’autore, si celano altrove, per esempio nella crudeltà assoluta della guerra (non a caso presenza incombente lungo tutto il romanzo, che colpisce impietosa, indifferente, subdola, dispensando inconsolabile strazio), non è dunque il caso di giudicare con severità eccessiva le manchevolezze nostre e dei nostri simili, perché le loro anime meschine, le anime di tutti in verità, non conoscono la grandezza, né quella nobile del buono e del giusto né l’abisso del male.

Non sarebbe tuttavia corretto considerare l’opera più celebre di Thackeray un romanzo completamente privo di respiro etico, un divertimento letterario fine a se stesso, uno spettacolo di burattini messo in piedi con l’unico scopo di intrattenere un pubblico svogliato e distratto. Thackeray, è vero, si burla dell’ambizione umana; la considera sub specie aeternitatis bollandola come pura insensatezza, ma nello stesso tempo ha onestà e umiltà bastanti per contestualizzarla e comprenderla, giustificarla persino, anche se soltanto in parte. Come già accennato, infatti, i suoi favori vanno a Becky, la cui brama di successo in realtà è soltanto un comprensibilissimo desiderio di riscatto sociale; ma Becky è il fulcro del romanzo anche per un altro motivo, perché attraverso lei lautore dà forma a un consesso sociale nel quale, certo, le ombre prevalgono sulle luci e tuttavia le colpe hanno l’aspetto buffo, e sostanzialmente innocuo (o quasi) dei difetti, delle imperfezioni. In una parola, Thackeray offre al lettore, sfruttando al meglio il fascino sottile della commedia, il gentile e benefico contagio del riso, forse la più preziosa delle virtù: la tolleranza. E senza smettere di sorridere lo invita a educarsi ad essa, misurando con la medesima indulgenza se stesso e il prossimo.

Eccovi l’inizio del romanzo, una sorta di allegorica presentazione del testo (con annessa morale) intitolata Davanti al sipario. Buona lettura.

Mentre il direttore di scena siede davanti al sipario, sulle tavole, e guarda la Fiera, un senso di profonda malinconia lo pervade nell’osservare il tumulto del luogo. C’è un gran bere e mangiare, fare all’amore e civettare; c’è chi ride e chi fa il contrario, chi fuma, chi truffa, chi si picchia, chi balla, chi suona; ci sono prepotenti che si fanno largo, bellimbusti che adocchiano le donne, furfanti che borseggiano, poliziotti in agguato, ciarlatani (altri ciarlatani, che li colga la peste!) che schiamazzano davanti ai loro baracconi, e babbei estasiati davanti alle ballerine coperte di lustrini e ai poveri vecchi saltimbanchi imbellettati, mentre i borsaiuoli dalle dita svelte operano di dietro sulle loro tasche. Sì, questa è la Fiera delle Vanità; non è certo un luogo morale; e neppure un luogo allegro, sebbene sia molto rumoroso. Guardate i volti degli attori e dei pagliacci quando hanno terminato le loro parti; e Tom Fool mentre si lava il viso dal belletto, prima di sedersi a pranzo con sua moglie e il piccolo Jack Puddings dietro al telone. Il sipario si alzerà fra pochi istanti, ed egli farà giravolte sulla testa e le calcagna gridando «Come state»? Un uomo dotato di spirito riflessivo, che passeggi per una esposizione di questo genere, non si sentirà oppresso, ve lo garantisco, dall’allegria propria o altrui. Un episodio umoristico o di gentilezza può commuoverlo e divertirlo qua e là; un bel bambino che guarda un banco di dolciumi; una graziosa fanciulla che arrossisce mentre il suo innamorato le parla e le sceglie il regalino della fiera; il povero Tom Fool, laggiù dietro il carro, che rosicchia il suo osso con l’onesta famiglia che vive dei suoi salti; ma l’impressione generale è piuttosto di malinconia che di gioia. Quando rientrate in casa, vi mettete a sedere in uno stato d’animo severo, contemplativo, non privo di carità e vi immergete nei vostri libri o nei vostri affari.

Non ho altra morale da appiccicare alla presente storia della Fiera delle Vanità. C’è della gente che considera le fiere del tutto immorali, e le evita, con servi e famiglia; probabilmente ha ragione. Ma quelli che la pensano diversamente, e sono in uno stato d’animo di pigrizia, oppure benevolo, magari sarcastico, forse gradirebbero entrarvi per una mezz’oretta, e stare a vedere lo spettacolo. Ci sono scene di ogni genere: alcune spaventose battaglie, cavalcate grandiose e superbe, scene della gran vita, e talune, a dire il vero, di vita assai modesta; c’è un po’ d’amore per i sentimentali, e alcuni scherzetti comici; il tutto accompagnato da acconci scenari, e brillantemente illuminato dalle candele di fabbricazione dell’Autore.

2 commenti su “La seduzione della vanità. Un peccato da mettere in burla”

  1. ho adorato questo romanzo e la tua recensione è impeccabile.
    vorrei tanto leggere la vita di Henry Esmond , ma non riesco a trovarlo da nessuna parte , sembra scomparso da tutte le librerie.
    peccato.

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