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Gli uomini che fecero a pezzi il sogno americano

Recensione di “American Tabloid” di James Ellroy

recensione - James Ellroy, American Tabloid, Mondadori
James Ellroy, American Tabloid, Mondadori

L’America non è mai stata innocente. Si apre così, con questo durissimo giudizio di condanna, American Tabloid, il romanzo-capolavoro di James Ellroy, primo capitolo della “trilogia americana”, un ruvido, feroce spaccato di storia recente, un’istantanea fredda e spietata di una nazione, della sua deriva e degli uomini che, nei cruciali anni che vanno dal 1958 al 1963, ne sono stati responsabili.


Ellroy scrive come se sussurrasse segreti inconfessabili; il suo stile secco, deciso e diretto guarda esclusivamente ai fatti, li inquadra, quasi fosse un arma da fuoco puntata contro il bersaglio, e li svela, lasciando alla nudità di quel che accade, alla realtà (e allo squallore e all’orrore che porta con sé) il compito di scuotere il lettore. A metà strada tra storia e cronaca, lo scrittore americano racconta di ricatti e violenze, omicidi e complotti, doppi giochi e tradimenti con la dettagliata precisione della testimonianza; l’impressionante forza d’urto del passato, del passato svelato, confessato (non per rimorso o senso di colpa, ma come libera scelta di verità), amplifica l’effetto di una prosa allo stesso tempo essenziale e ricchissima; tanto nelle descrizioni d’ambiente quanto nel disegno dei personaggi (dove Ellroy raggiunge l’eccellenza), all’autore sono sufficienti pochi tocchi, periodi corti e perfetti, implacabili come sentenze, per restituire nella loro complessità momenti e decisioni di capitale importanza. 

Il direttore dell’Fbi J. Edgar Hoover, i fratelli John e Robert Kennedy, bramosi di potere, e il loro padre, implicato in attività di contrabbando e loschi traffici con la mafia, le occulte manovre politiche della Cia, priva di scrupoli nel reclutamento e nell’utilizzo dei peggiori pendagli da forca in circolazione pur di raggiungere i propri scopi, Castro e la presa del potere a Cuba ai danni del dittatore Fulgencio Batista, amico degli Stati Uniti, del capitalismo e della criminalità organizzata (che attraverso l’attività dei casinò presenti sull’isola guadagnava milioni di dollari), Lanny Sands, cabarettista, figura di secondo piano del sottobosco criminale a conoscenza di informazioni compromettenti su molti uomini importanti, James Riddle Hoffa, potentissimo capo del sindacato dei trasportatori, truffatore corrotto legato a doppio filo a boss mafiosi, Howard Hughes, miliardario eccentrico, drogato, paranoico, compromesso in più di un’attività illecita e grande amico di Hoover; questi i principali protagonisti del tragico affresco di James Ellroy. Accanto a loro, tre comprimari divenuti figure chiave per ambizione, fortuna e desiderio di vendetta: gli agenti dell’Fbi Kemper C. Boyd e Ward J. Littell e Pete Bondurant, ricattatore, picchiatore e factotum al soldo di Hughes, uomo privo di qualsiasi morale ma di grande intelligenza e capace di dare alle proprie perverse azioni un’ammirevole grandezza.

Sono loro, e i loro moventi, a innescare un folle cortocircuito di caos e morte, a gettare sull’America ombre impossibili da spazzare via; incapaci, forse per scelta deliberata, forse per astuto calcolo o forse semplicemente perché malvagi, di distinguere il tornaconto personale dal dovere, questi uomini – “sbirri corrotti e artisti del ricatto”, scrive Ellroy, “intercettatori, soldati di fortuna e cabarettisti froci” – plasmano destini collettivi inseguendo i propri sogni e fuggendo da ossessioni e paure: Robert “Bobby” Kennedy, pronto a qualsiasi sacrificio pur di combattere la mafia e portare in tribunale Hoffa, finisce per perdere di vista la propria crociata, schiacciato prima dalla candidatura alla presidenza degli Stati Uniti del fratello e poi dalla sua elezione; Hoover sigla uno scellerato patto di non belligeranza con la criminalità organizzata (“La mafia non si può sconfiggere”, dichiara a più riprese, “dunque perché sprecare tempo e risorse provandoci?”) e dedica ogni energia (sua e del bureau) per consolidare la propria posizione e combattere il “nemico numero uno” del Paese, il comunismo; la Cia, nel più assoluto segreto, all’indomani della presa del potere da parte di Fidel Castro a Cuba organizza milizie clandestine in previsione di un’invasione dell’isola e finanzia le proprie attività grazie al traffico di eroina; Kemper C. Boyd accetta di lavorare per chiunque (i Kennedy, Hoover, la Cia) pur di garantirsi lauti guadagni; Ward J. Littell, assetato di giustizia tanto quanto Kennedy, scopre quanto sia alto il prezzo da pagare per restare fedeli a se stessi e finisce per trasformarsi in quel che ha sempre cercato di annientare; Pete Bondurant non si ferma davanti a nulla, ma per quanta strada faccia il suo sordido passato di ricattatore e galoppino del potente di turno, sia esso Hughes, la mafia o la Cia, continua a restargli incollato addosso.

American Tabloid è un romanzo splendido, scintillante; un mosaico che illumina un’impressionante teoria di macerie, una lucida sentenza, un’eredità preziosa e un’opera letteraria di grandissimo valore. Leggetelo, non vorrete più smettere.

Eccovi l’incipit. Buona lettura.

Si faceva sempre alla luce del televisore.
Alcuni latinoamericani agitavano armi da fuoco. Il capo del gruppo si piluccava insetti dalla barba e fomentava i suoi. Immagini in bianco e nero: tecnici della Cbs in divisa mimetica. Cuba, brutta storia, disse un annunciatore. 
I ribelli di Fidel Castro contro l’esercito regolare di Fulgencio Batista.  
Howard Hughes trovò la vena e si iniettò la codeina. Pete lo osservò di soppiatto: Hughes aveva lasciato la porta della camera socchiusa.La droga giunse a destinazione. Il volto di Big Howard si fece vacuo.  
Dall’esterno giunse lo sferragliare dei carrelli del servizio in camera. Hughes si tolse la siringa dal braccio e prese a scanalare. Howdy Doody rimpiazzò il telegiornale: perfetto per il Beverly Hills Hotel.  
Pete uscì sulla veranda: vista sulla piscina, punto ottimale per la ricognizione. Pessimo tempo, oggi: nessuna stellina in bikini. Controllò l’ora, teso. A mezzogiorno doveva procurare un divorzio: il marito si scolava i suoi pranzi da solo e adorava la passera in erba. 
Procurarsi flash di qualità: le fotografie sfocate facevano credere che a scopare fossero due ragni. 
Per conto di Hughes: scoprire chi si occupa di consegnare i mandati di comparizione per l’indagine dell’antitrust sulla Twa e convincerli a suon di dollari che Big Howard è partito per Marte.  
Howard il Furbacchione l’aveva messa così: – Non voglio combattere questa causa, Pete. Me ne starò segregato a tempo indefinito e farò salire i prezzi finché non dovrò vendere. Sono stufo della Twa, ma non la venderò finché non potrò tirarci fuori almeno 500 milioni di dollari.

4 commenti su “Gli uomini che fecero a pezzi il sogno americano”

  1. ciao, bella presentazione che mette in luce lo stile dello scrittore che é super sintetico e nello stesso tempo esplicativo di particolari che lascia immaginare.
    Domanda: secono te devo ritenere storia o romanzo quello che si legge ?????
    a te l’ardua sentanza, alla prossima

  2. Direi che siamo in piena, e dettagliata, ricostruzione storica. Mirabilmente romanzata, ma di fatti, in queste pagine, ce ne sono eccome. Ellroy, per nostra fortuna, non si nasconde. Fin dalle primissime parole di questo romanzo: “L’America non è mai stata innocente”

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