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La sciocca presunzione di chi sogna di guidare la realtà

Recensione di “Un uomo vero” di Tom Wolfe

 

recensione - Tom Wolfe, Un uomo vero, Mondadori
Tom Wolfe, Un uomo vero, Mondadori

Charlie Croker è un imprenditore milionario, un uomo di successo, sicuro di sé, vitale, sempre a caccia di nuove sfide. Non è più un ragazzo, è vero, ma all’inevitabile avanzare dell’età ha opposto l’argine che tutti gli uomini (facoltosi o meno che siano) oppongono: il divorzio dalla prima moglie, sua coetanea o quasi, e le nuove nozze con una ragazza, incantevole e soprattutto molto, molto più giovane di lui.


Charlie Croker è con ogni probabilità l’uomo più conosciuto e ammirato di Atlanta; è qui, infatti, che ha costruito molti dei grattacieli che punteggiano la città, uno più elegante dell’altro, qui che si è realizzato professionalmente, qui che è diventato una celebrità. Ma ora Atlanta sembra avergli voltato le spalle. Croker infatti è nei guai; si è lanciato in un’ardita speculazione edilizia, certo che il suo coraggio avrebbe ancora una volta pagato, e di colpo si è ritrovato a dover fare i conti con un colossale fallimento.

Il suo ultimo gioiello architettonico, il faraonico Croker Concourse – un monumento a se stesso travestito da grattacielo con annessi e connessi più che un complesso abitativo destinato a ospitare appartamenti e uffici – non ha suscitato nessun interesse; quasi tutti gli spazi sono rimasti invenduti e non c’è modo di rientrare delle spese sostenute, e di restituire i prestiti concessi dalle banche, se non intaccando profondamente il patrimonio. In una parola, Charlie Croker è sull’orlo della bancarotta. Ed è uno dei personaggi chiave di Un uomo vero di Tom Wolfe, tragicomico affresco dell’odierna società e dei suoi (falsi) miti fondanti, quello del denaro in primo luogo.

Lo scrittore americano prende le mosse dalle vicende individuali, raccontate con ironia, con un’amara perfidia che svela la tragedia al di là della commedia, per aprirsi al generale, a un’analisi sociale, politica ed economica tanto lucida quanto scomoda. Insieme alle disavventure di Croker, alla descrizione della sua parabola discendente, Wolfe narra altri infortuni, altre derive, e fa in modo che ognuna di esse simboleggi (o meglio rispecchi) un tema; quella del giovane campione di football Fareek Fanon, ragazzo di colore salvatosi dal ghetto e della miseria grazie alle proprie doti atletiche che viene accusato di aver violentato la figlia di un uomo d’affari bianco amico di Croker – ed ecco comparire la questione razziale, ancora oggi una ferita aperta per l’America e il suo spirito libertario – e quella di Conrad Hensley, un uomo qualunque che desidera soltanto migliorare le proprie condizioni di vita e che un brutto giorno, senza aver fatto alcunché di sbagliato, si ritrova disoccupato, licenziato da un’azienda del gruppo Croker, in crisi come tutto il resto dell’impero economico di quell’uomo. L’improvviso rovescio coglie del tutto impreparato Hensley, che non riesce più a rialzarsi e, come in un girone infernale, peggiora progressivamente, fino a conoscere l’umiliazione della prigione (e qui Wolfe invita il lettore a interrogarsi sulla responsabilità personale e sui suoi limiti. È vero, Hensley non ha colpe, è una vittima, ma la consapevolezza dell’ingiustizia subita quanto può giustificare la sua resa?).

Seguendo questi tre destini, differenti ma strettamente legati tra loro, Wolfe dipinge un malessere esistenziale diffuso, un disordine (anche morale) che è prima di tutto confusione di ruoli, incapacità di guardare la realtà, di comprenderla, e contemporaneamente volontà (cieca, volgare e in ultima analisi sciocca) di guidarla, di piegarla ai propri desideri. La prosa di Wolfe, raffinatissima, si permette di crogiolarsi nell’esercizio di stile quando disegna gli ambienti, sia quelli sfarzosi ed eccessivi dell’upper class, sia quelli miseri delle periferie e dei quartieri neri, ma è scintillante, elettrizzante ed eccezionalmente felice nelle caratterizzazioni, e i dialoghi, in più di un’occasione rivelatori della complessa psicologia dei personaggi (e soprattutto delle loro debolezze), sono sempre esplosivi, fiammeggianti, potenti. È attraverso l’immediatezza del discorso diretto che Wolfe mostra al lettore la sostanziale inconsistenza di Croker, deciso a non arrendersi all’evidenza del proprio fallimento; e ancora la rabbia, mascherata da dignità, di Fareek, che neppure di fronte al proprio avvocato (anch’egli di colore) abbandona gli atteggiamenti da “delinquente da ghetto”, convinto in questo modo di rispettare il proprio passato; e infine la disperazione, che giorno dopo giorno si fa impotenza, di Conrad Hensley, in attesa di riscuotere il credito che vanta con la vita, con il destino.

Un uomo vero è prima di tutto un romanzo piacevolissimo, una lettura che diverte, e proprio per questo appassiona (molti i capitoli indimenticabili, come per esempio “Le bisacce” – il titolo si riferisce alle macchie di sudore sotto le ascelle che il responsabile recupero crediti della banca in affari con Croker aveva fama di far comparire sulle camicie di chiunque avesse a che fare con lui – o quelli dedicati al risveglio di Hensley, folgorato dalla lettura del Manuale di Epitteto), ma è anche la desolante fotografia di un microcosmo in rovina. Il nostro microcosmo.

Eccovi l’incipit del romanzo, ottimamente tradotto da Giovanni Luciani. Buona lettura.

In sella al suo cavallo preferito, Charlie Croker tirò indietro le spalle per essere sicuro di stare dritto e trasse un profondo respiro… Ahhh, ecco la posizione giusta… Amava il modo in cui il possente torace gli si gonfiava sotto la tenuta cachi, e immaginava che tutti i partecipanti alla battuta di caccia avrebbero notato la sua presenza fisica. Tutti. Non solo i sette ospiti, ma anche i sei dipendenti e la giovane moglie, a cavallo dietro di lui vicino ai muli che tiravano il buckboard e il carro dei cani. Per sicurezza, allargò e gonfiò i muscoli più potenti della schiena, i latissimi dorsi, in una personale interpretazione di un pavone. Sua moglie, Serena, aveva solo ventotto anni, mentre lui ne aveva da poco compiuti sessanta ed era mezzo calvo, con una striscia di capelli ricci e grigi ai lati della testa e della nuca. Non perdeva quasi mai l’occasione di rammentarle che corda spessa – anzi, che cavo d’acciaio – lo legasse ancora alla vitalità primitiva e animalesca della sua giovinezza.

Stavano attraversando i campi sconfinati di saggina della piantagione, a circa due chilometri di distanza dalla Big House. Quel giorno di fine febbraio, lì nell’estremo sud della Georgia, alle otto di mattina il sole era già così forte da far alzare la foschia dal suolo in spirali di fumo, creando un celestiale bagliore verde nel bosco di pini e illuminando la saggina di rossastre tonalità. 

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