Recensione di “Contro il giorno” di Thomas Pynchon
Leggere Thomas Pynchon è un’esperienza che non somiglia a nessun’altra. Perdersi nei suoi labirinti linguistici, indovinare la trama dei romanzi, sottilissima striscia di sabbia che corre sinuosa lungo traiettorie imprevedibili disseminate di mille e mille altre storie, seguire le scelte e le decisioni dei personaggi, il loro agire, tra disperato e grottesco, in contesti che del reale hanno la fugace apparenza e del suo contrario un’immaginifica, entusiasmante sostanza, esplorare, pur tra infiniti giochi di specchi, il suo nitido universo etico, condividerne le decise prese di posizione, è qualcosa che richiede ben più che una favorevole predisposizione d’animo o una rocciosa forza di volontà.
Perché Pynchon dal lettore pretende cieca fiducia. Scrittore in tutti i sensi monumentale (lo sono i suoi lavori, gli argomenti che affronta, lo è la vastità dei suoi interessi), il geniale romanziere americano senza sosta incanta, affascina, stordisce; la sua scrittura multiforme, priva di punti di riferimento, caratterizzata da una bizzarria che sfiora l’incomprensibile (e in molti casi perfino l’indicibile), senza peraltro mai forzare la parola, il suo senso e la sintassi cui obbedisce, è un azzardo folle, un salto mortale, qualcosa che si può pensare di compiere solo se ci si abbandona, per intero, a colui che ci chiede questo passo.
Thomas Pynchon è un irresistibile burattinaio, un magnifico illusionista, un creatore di mondi e di destini; i suoi libri sono ricchissime tavole imbandite lungo le quali lo sguardo può correre all’infinito senza rischiare di imbattersi per due volte in una stessa portata, e Contro il giorno, pubblicato in Italia da Rizzoli nel 2009 (oltre mille pagine, splendidamente tradotte da Massimo Bocchiola), è con ogni probabilità il più sovrabbondante e anarchico dei suoi romanzi. La sostanziale inconsistenza della trama – in un arco di tempo che va dal 1893 agli anni immediatamente successivi al primo conflitto mondiale e in una collocazione geografica che sembra non ammettere il concetto di confine accade praticamente di tutto, in un caos assoluto che richiama la cosmogonia del big bang – un artificio assai caro all’autore, è in realtà rivelatrice dell’estrema profondità del romanzo.
La maschera dell’assurdo serve a Pynchon per celare tesori autentici: le ragioni delle battaglie anticapitaliste, l’utopia (questa sì irraggiungibile, in un mondo in cui, paradossalmente, ogni cosa pare accadere senza apparente sforzo, persino viaggi nel tempo e nello spazio figli di cervellotiche applicazioni pratiche dell’ipotesi di Riemann, o meglio della sua soluzione, nonché della casuale scoperta di una “sostanza” in grado di agire sulla realtà come noi la conosciamo conducendo a mondi paralleli) di una società più giusta, non più fondata sulle logiche, opposte ma complementari, dello sfruttamento del lavoro e dello smisurato arricchimento derivante dal lavoro (cioè dal possesso dei mezzi di produzione); e ancora le sconfinate possibilità della scienza, l’eterno fascino del mito, della leggenda, che come i sogni ha il proprio fondamento nel vero, e il piacere puro, incorrotto, del racconto, dell’invenzione, della presentazione di quel che “potrebbe essere”, della letteratura come vaticinio; certo scanzonato, irriverente, molto più che improbabile, ma alla fine non è questo che importa; Pynchon infatti non ammonisce né mette in guardia, piuttosto sbircia dal buco della serratura nella “camera da letto di Dio” (non mi viene in mente nessun altro posto che possa contenere tutto quel che lui riesce a far stare nei suoi romanzi), poi, con un’educazione d’altri tempi, si mette da parte e lascia a noi tutto il divertimento.
Contro il giorno, che pur nella sua meravigliosa ingovernabilità ha fili di Arianna che ci consentono di non perdere mai del tutto l’orientamento – la storia del sindacalista dinamitardo Webb Traverse, della sua prematura fine a opera di sicari pagati dai suoi risentiti “datori di lavoro”, quella dei suoi quattro figli, tre maschi e una femmina, e quella di un gruppo di eterni adolescenti (i “Compari del Caso”) che attraversa il mondo a bordo di un dirigibile – non è soltanto un capolavoro letterario, è una specie di opera definitiva; una volta letto, si ha la sensazione, dolorosa ed esaltante insieme, che non si possa andare più in là, riuscire a scrivere qualcosa di più pazzo, più perfetto, più meditato, più improvvisato, più colto, più immaginato. E forse è proprio così, ma forse si tratta soltanto dello scherzo (questo sì il più riuscito) di un uomo che come nessun altro ha esplorato il magico continente della parola, scoprendolo infinito.
Eccovi l’incipit del romanzo. Buona lettura.
«Ora, dimezzare gli ormeggi e occhio a tutti i passi!»«Di lena, adesso… calmi… bene così! Pronti a salpare!»«Città del Vento, arriviamo!»«Urrà! Si sale!»Fu fra queste vivaci esclamazioni che l’aeronave all’idrogeno Inconvenience, con la gondola ornata da bandierine patriottiche e un equipaggio composto da cinque membri del fregiatissimo circolo nautico noto come i Compari del Caso, ascese bruscamente nel mattino e in breve prese il vento da sud.Quando l’aeronave raggiunse la quota di crociera, e i tratti del paesaggio che si erano lasciati indietro, la suolo, furono ridotti a un formato quasi microscopico, il comandante Randolph St. Cosmo ordino:«Ora si sciolga il Distaccamento Speciale del Cielo»; e i ragazzi, impeccabili nei blazer a righe biancorosse e calzoni celesti dell’uniforme estiva, eseguirono energicamente le disposizioni.Quel giorno erano diretti alla città di Chicago dove di recente era stata inaugurata l’Esposizione Mondiale Colombiana.Dalla comunicazione degli ordini in poi, i «pissipissi» dell’equipaggio curioso ed emozionato vertevano quasi soltanto sulla favolosa «Città Bianca» e la sua grande ruota panoramica, e i templi alabastrini del commercio e dell’industria, e le lagune lucenti e le migliaia di altre meraviglie, di natura scientifica e artistica che li aspettavano là.