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Spettatori dell’ira funesta di Achille

Recensione di “Iliade di Omero” di Vincenzo Monti

recensione - Vincenzo Monti, Iliade di Omero, Mondadori
Vincenzo Monti, Iliade di Omero, Mondadori

Le virtù eroiche e guerriere, la fierezza dei combattenti dell’uno e dell’altro schieramento, la stanca saggezza di Priamo, signore della superba Troia, l’indomito coraggio di Ettore, condannato dal fato al sacrificio di sé, l’orgoglio di Achille, il più valoroso tra gli Achei, l’amore appassionato e tragico tra Paride ed Elena, la spavalderia colpevole di Agamennone, comandante dell’esercito assediante, la furia  inarrestabile di Diomede, che solo una volta giunto dinanzi ad Apollo depone la propria spada, la pazzia del nobile Aiace Telamonio, indotta da un incantesimo di Atena, e ancora Enea, difensore di Troia, il giovane Patroclo, perdutamente amato da Achille, che si reca in battaglia con indosso l’armatura dell’amico e soccombe a Ettore, l’astuto Ulisse, re di Itaca, tessitore di mortali inganni.

La meravigliosa traduzione in versi di Vincenzo Monti de l’Iliade di Omero, trionfo di bellezza, non è soltanto uno dei riconosciuti vertici della poetica classicista ottocentesca, è un capolavoro letterario senza tempo, un patrimonio di inestimabile valore; nelle pagine dell’opera riverbera infatti per intero la grandezza di un mondo, quello greco, di cui la nostra cultura e la nostra sensibilità d’uomini è figlia. Dando prova di un mimetismo che va ben al di là della preparazione filologica, della puntualità linguistica e della raffinata soluzione espressiva, Monti legge l’epopea omerica prima di tutto come un mito fondativo che riguarda tutti, e come tale si sforza di restituirlo. Come acutamente scrive Michele Mari nell’introduzione ai due volumi dell’opera editi da Rizzoli, “troppo affascinato dal mito classicista di Omero pater poetarum per potersi seriamente interessare alla questione omerica, che dopo un secolo di dibattito europeo (D’Aubignac, Vico, Bentley, Blackwell, Wood, Merian, Villoison) riceveva proprio in quegli anni i contributi fondamentali di Heyne e di Wolf, il Monti era anche portato ad ammirare la grande favola iliaca al punto di perderne di vista il testo in quanto tale e i problemi che vi erano connessi. Più che un testo storicamente e formalmente determinato, in altre parole, il poema di Troia era ai suoi occhi un mito plastico e luminoso, una «storia», definitiva nella sua esemplarità eroica, che attendeva solo di essere altrettanto definitivamente guadagnata alla letteratura italiana”.

La perfezione del lavoro di Vincenzo Monti, il suo splendore letterario dipendono solo estrinsecamente (anche se si tratta, è bene dirlo con estrema chiarezza, di qualcosa di fondamentale importanza) dai suoi studi sulla lingua e dalle scelte, formali e sostanziali, che ne discendono; i versi, infatti, emozionano e conquistano perché sono prima di tutto la traduzione sincera e immediata dei sentimenti che il poeta ha provato leggendo delle battaglie e degli amori, degli scontri tra gli dei e tra gli uomini, delle virtù difese fino alle estreme conseguenze e dei destini, anche i più terribili, accettati con quel quieto fatalismo che contraddistingue le anime più pure.

L’entusiasmo di Monti, prima di essere quello specialistico dell’uomo di lettere che si trova a tu per tu con una delle più grandi opere della storia della letteratura, è quello, quasi fanciullesco, per una scintillante epopea capace come nessun altra di parlare al cuore prima che alla mente, per una verità resa eterna dai comportamenti degli uomini, dalle loro scelte, per il bene e il male abbracciati con convinzione piena, con adamantina consapevolezza, e in tal modo diventati simbolo di ciò che è giusto e del suo opposto. Lo stupefacente equilibrio tra la musicalità dei versi di Monti e la loro eccezionale potenza evocativa conduce il lettore nel bel mezzo delle battaglie, nelle stanze degli dei e fin nei più segreti recessi dei cuori degli uomini, là dove ogni cosa ha inizio. Tutto, nell’opera di Omero, è archetipo, a partire dagli eroi, splendenti eppure in qualche modo bambini, come fossero espressione dell’infanzia del mondo.

Con Omero, con la sua narrazione burrascosa, prende avvio la civiltà come noi la conosciamo; Monti, consapevole di sedere sulle spalle di un gigante, mette le infinite possibilità della lingua al servizio di una storia che racchiude in sé tutte le storie che si racconteranno da quel momento in avanti, e riesce in una sorta di miracolo espressivo. La sua Iliade diviene archetipo nello stesso modo in cui lo è il modello, si veste di un’innocenza letteraria irripetibile e, pur figlia del tempo, guadagna l’immortalità. Come scrive ancora Mari in chiusura della sua illuminante introduzione, “chi non si accontenta di una versione puramente strumentale dell’Iliade ancora oggi ricorre all’interpretazione fluida e ariosa di Vincenzo Monti, anche perché (ed è un’ulteriore riprova di classicità) per il lettore italiano è sempre difficile separare il poema di Omero dalla forma impressagli dal Monti una volta per tutte, e dimenticarsi di attacchi e di chiuse come Cantami, o Diva, del Pelide Achille l’ira funesta o Questi furo gli estremi onor renduti al domatore di cavalli Ettorre. «Niuno vorrà in Italia per lo innanzi tradurre la Iliade», esclamava M.me De Staël nel suo storico articolo Sulla maniera e la utilità delle traduzioni, «poiché Omero non si potrà spogliare dell’abbigliamento onde il Monti lo rivestì»; non c’è dubbio, almeno per la seconda parte, che la profezia si sia avverata”.

 
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
 
Cantami, o Diva, del Pelide Achille
l’ira funesta che infiniti addusse
lutti agli Achei, molte anzi tempo all’Orco
generose travolse alme d’eroi
e di cani e d’augelli orrido pasto
lor salme abbandonò (così di Giove
l’alto consiglio s’adempìa), da quando
primamente disgiunse ampia contesa
il re de’ prodi Atride e il divo Achille.
E qual de’ numi inimicolli? Il figlio
di Latona e di Giove. Irato al Sire
destò quel Dio nel campo un feral morbo,
e la gente perìa: colpa d’Atride
che fece a Crise sacerdote oltraggio.
Degli Achivi era Crise alle veloci
prore venuto a riscattar la figlia
con molto prezzo. In man le bende avea,
e l’aureo scettro dell’arciero Apollo:
e gli Achei tutti supplicando, e in prima
ai due supremi condottieri Atridi:
O Atridi, ei disse, o coturnati Achei,
gli immortali del cielo abitatori
concedansi espugnar la Prïameia
cittade, e salvi al patrio suol tornarvi.
Deh, mi sciogliete la diletta figlia,
ricevetene il prezzo, e il saettante
figlio di Giove rispettate.

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