Recensione di “La trilogia di Adamsberg” di Fred Vargas
Pochi sarebbero disposti a credere che Jean-Baptiste Adamsberg sia un poliziotto, anzi, addirittura un commissario. Pochissimi, quasi nessuno a dire il vero, specie tra i suoi colleghi. Difficile dar loro torto, perché quest’uomo indecifrabile, distratto, pedante nel parlare, affascinato da tutto ciò che è curioso, insolito, capace, quasi si trattasse di una sorta di mago, o più probabilmente di un astuto fenomeno da baraccone, di indovinare la crudeltà che suppura dalle persone (da quel che dicono, dai loro gesti, persino dalle loro espressioni), refrattario a qualsiasi genere di metodo razionale di indagine, trascurato fin quasi alla trasandatezza nel vestire e incapace di giustificare le sue intuizioni, è quanto di più lontano esista da un investigatore.
Eppure nel suo lavoro è bravo, quasi infallibile. A dimostrarlo sono i molti casi risolti, e le conseguenti promozioni, gli avanzamenti di carriera, e infine la scrivania da commissario a Parigi, quinto arrondissement, un’intera squadra ai suoi ordini. E numerosi omicidi su cui fare luce.
Jean-Baptiste Adamsberg, personaggio nato dalla fantasia della scrittrice francese Fred Vargas (pseudonimo di Frédérique Audouin-Rouzeau), è il protagonista di molti suoi romanzi; l’autrice lo dipinge con divertito affetto, sottolineandone, insieme all’eccentricità, il suo drammatico contraltare, una condanna senza appello alla solitudine. Adamsberg, che compare per la prima volta sul palcoscenico letterario nel romanzo giallo L’uomo dei cerchi azzurri, ha la medesima consistenza di un alito di vento. La sua vita personale è indistinta, impalpabile, impossibile da identificare, come un viso ritratto in una foto buia e sfuocata; niente sembra riuscire ad ancorarlo alla realtà, né l’amore (che pure è sincero, intenso e doloroso) per la fidanzata Camille, tradita a più riprese senza nessuna particolare ragione, né l’amicizia o il cameratismo con i collegi (soprattutto con il robusto Danglard, detective preciso e pedante, padre di troppi figli, uno dei quali nemmeno suo, abbandonato dalla moglie). Adamsberg, semplicemente, sembra aver rinunciato alla fatica di vivere; non oppone argine al caso, a tutto quello che può accadere, non si preoccupa di dare un indirizzo alla propria esistenza, la accetta, proprio come si accettano i capricci del tempo, subendoli, al massimo prendendo con sé un ombrello se ci si accorge, prima di uscire di casa, che fuori sta piovendo.
Adamsberg è un puzzle faticoso e senza fine; se ne possono ricostruire i contorni, poi è giocoforza fermarsi. Come Danglard, come Camille (colei che più di tutti lo ha conosciuto e che forse proprio per questo alla fine si è arresa), il lettore, attratto dalla tela di ragno dello stile agrodolce di Fred Vargas, dal suo continuo fluttuare tra la cupezza e una specie di lieve e piacevole noncuranza, non fatica ad affezionarsi a questo poliziotto differente da qualsiasi altro, scoprendolo pezzo per pezzo proprio come Adamsberg, pezzo per pezzo, mette in fila il suo arruffato procedere nelle indagini, ne trae le conclusioni e cattura l’assassino.
E tuttavia il geniale commissario, a differenza dell’intreccio del romanzo, che alla fine si scioglie, resta un enigma, qualcosa di irrisolto, una sfumatura di disordine (emotivo e razionale) in un mondo tornato per un momento, dopo la cattura del colpevole, a essere ordinato, rassicurante, facile. Così, non resta che tuffarsi in un nuovo romanzo, in un’altra indagine, nel buio di anime corrotte, nell’insopportabile fetore della morte violenta, nel gorgo soffocante della vendetta, nella giostra malata dei moventi, sempre uguali e sempre diversi, che dovrebbero spiegare la ferocia, l’annientamento, la tragica amputazione di una vita. Nella speranza di riportare alla luce un nuovo pezzo del commissario, un’altra tessera del puzzle.
Le prime tre investigazioni di Jean-Baptiste Adamsberg (il già citato L’uomo dei cerchi azzurri, l’incalzante L’uomo a rovescio e l’originalissimo Parti in fretta e non tornare, dove torna a mietere vittime forse il più terribile flagello della storia umana, la peste) sono state raccolte in un unico volume, intitolato La trilogia Adamsberg: quasi un migliaio di pagine che si leggono d’un fiato.
Eccovi l’incipit del primo dei tre romanzi. Buona lettura.
Mathilde tirò fuori l’agenda e scrisse: «Il tizio seduto alla mia sinistra mi prende per i fondelli». Bevve un sorso di birra e lanciò un’altra occhiata al vicino, un tizio immenso che da dieci minuti tamburellava con le dita sul tavolo. Aggiunse all’agenda: «Si è seduto troppo vicino, come se ci conoscessimo, invece io non l’ho mai visto. Non c’è molto altro da dire su questo tizio che porta un paio di occhiali neri. Sono seduta all’aperto al Café Saint-Jacques e ho ordinato una birra alla spina. La bevo. Mi concentro sulla birra. Non trovo niente di meglio da fare». Il vicino di Mathilde continuava a tamburellare sul tavolo.
– C’è qualcosa che non va? – domandò lei.
Mathilde aveva la voce bassa e molto roca. L’uomo reputò che fosse una donna, e che fumasse tantissimo.
– Niente. Perché? – domandò l’uomo.
– Credo che mi dia sui nervi vederla giocherellare con il tavolo. Oggi tutto mi irrita.
Mathilde finì la sua birra. Era scipita, tipico di una domenica. Mathilde aveva l’impressione di soffrire più degli altri del comunissimo male da lei chiamato il male del settimo giorno.
ho letto tutto quello che ha prodotto in Italia presso Einaudi.
insieme alla Jimenes Bartlett, la mia preferita.
Adamsberg, spalatore di nuvole è indimenticabile.
Adamsberg è un gran bel personaggio. Lo avrei visto benissimo in un romanzo di Vonnegut.