Recensione de “L’invenzione di Morel” di Adolfo Bioy Casares
Un’isola deserta che conserva remote tracce del passaggio dell’uomo (un museo, una cappella e una piscina), un fuggiasco in cerca di speranza, o forse solo di sopravvivenza, e l’inspiegabile comparsa di un gruppo di persone, estranei chiusi in una routine di soffocante perfezione che inizialmente suscitano il terrore del naufrago, poi una sempre più accesa curiosità e infine il desiderio irresistibile di venir scoperto, visto, di far parte di quelle vite allo stesso tempo così vicine e così irraggiungibili.
Un romanzo complesso, labirintico, che alle sfumature dell’avventura intreccia le atmosfere inquietanti del mistero; un’incessante riflessione sulla verità e sul suo significato, sulla morte e il suo superamento, sull’arte, la scienza e la loro ansia d’eternità e d’assoluto.
Pagine densissime, che non sembrano poter contenere tutta questa ricchezza eppure la dispensano con una semplicità che lascia stupefatti, pagine in cui l’esistenza incontra il suo opposto, lo abbraccia e se ne allontana per sempre, pagine colme d’amore e di disperazione, pagine di diario, brandelli di confessione, elenchi di fenomeni stranissimi e poi la ragione di ciascuno di essi, la soluzione dell’enigma. L’invenzione di Morel, l’opera più nota del grande scrittore argentino Adolfo Bioy Casares, è uno dei grandi capolavori della letteratura fantastica; come in un metafisico racconto poliziesco concepito con diabolica astuzia, l’autore costruisce la vicenda (che sostituisce al colpevole da smascherare la verità da comprendere, anche se un colpevole, o meglio un responsabile, non manca neppure in questo caso) e nel narrarla dipana il filo d’Arianna grazie al quale venire a capo della storia.
Ogni cosa, ne L’invenzione di Morel, è un’immagine allo specchio; ogni rivelazione una falsa pista, ogni colpo di scena l’ingresso in una nuova strada, l’apertura di una nuova prospettiva; non esistono punti di riferimento in quest’opera magnifica e impervia perché il romanzo – la sua struttura, la sua prosa, la cui chiarezza quasi pedantesca genialmente contrasta con l’incomprensibilità, o per dir meglio l’assoluta assurdità della vicenda che illustra – è parte dell’idea del suo creatore, perché è esso stesso ambientazione. L’isola deserta, il luogo in cui per definizione non c’è una via da seguire ma tante strade quante ne riesce a esplorare colui che la raggiunge, viene simboleggiata da una scrittura ordinata nell’esposizione ma inafferrabile quanto a contenuto (cosa accade realmente in quel luogo? Chi sono le persone comparse d’improvviso a sconvolgere la vita del rifugiato? Perché quel che fanno è a volte così incongruo con ciò che sta vivendo il testimone da sembrare impossibile? Perché non si accorgono di lui nemmeno quando smette di nascondersi, quando con tutte le sue forze vuole essere visto? Perché in cielo brillano due soli e due lune?), e non è un caso che a indagare su tutta questa “disordinata realtà” non sia un poliziotto ma un uomo condannato dalla giustizia (non importa se a torto a ragione). Ancora una volta, dunque, ecco emergere il contrario di ciò che dovrebbe essere: un detective (magari fuori dagli schemi) per un romanzo che, come già detto, è anche un poliziesco.
Svelare per intero la trama significherebbe spiegare quel che succede nell’isola, raccontare di Morel e della sua invenzione (o se si preferisce della sua maledizione; all’inizio del romanzo, infatti, si narra che l’isola sia “il focolaio di una malattia, ancora misteriosa, che uccide dall’esterno verso l’interno. Cadono le unghie e i capelli, muoiono la pelle e la cornea degli occhi, e il corpo sopravvive, otto, quindici giorni”); non dirò dunque nient’altro sugli sviluppi del romanzo né sulle peripezie del malcapitato naufrago che ne è il protagonista.
Lascio però la parola a Jorge Luis Borges, intimo amico dell’autore, e alle battute finale della sua splendida introduzione al volume, che ne è anche la chiave di lettura: “Bioy rinnova letterariamente un’idea che Sant’Agostino e Origene confutarono, che Louis Auguste Blanqui ragionò e che Dante Gabriele Rossetti disse con musica memorabile:
I have been here before,
But when or how I cannot tell:
I know the grass beyond the door,
The sweet keen smell
The sighing sound, the lights around the shore…
In spagnolo sono poco frequenti e anzi rarissime le opere di immaginazione ragionata. I classici praticarono l’allegoria, le esagerazioni della satira e, talvolta, la semplice incoerenza verbale; di data recente non ricordo che qualche racconto di Las fuerzas estranas, qualche altro di Santiago Dabove, ingiustamente dimenticato. L’invenzione di Morel (il cui titolo allude filialmente a un altro inventore isolano, Moreau) trasferisce nelle nostre terre e nella nostra lingua un genere nuovo. Ho discusso con l’autore i particolari della sua trama, l’ho riletta: non mi sembra un’imprecisione o un’iperbole qualificarla di perfetta”.
Eccovi l’incipit del romanzo (tradotto nell’edizione Bompiani da Livio Bacchi Wilcock). Buona lettura.
Oggi, in quest’isola, è accaduto un miracolo. L’estate è cominciata in anticipo. Ho messo il letto vicino alla piscina e ho fatto il bagno fino a tarda ora. Era impossibile dormire. Bastava restare fuori dalla piscina due o tre minuti perché l’acqua che doveva proteggermi dalla spaventosa calma si convertisse in sudore. All’alba mi svegliò un fonografo. Non potevo tornare al museo a prendere le mie cose. Fuggii per i dirupi. Ora sono nei bassi paludosi a sud dell’isola, tra piante acquatiche, indignato con le zanzare, immerso in ruscelli sporchi o nel mare fino alla cintura, e mi accorgo di avere anticipato assurdamente la mia fuga. Può darsi che quella gente non mi stia cercando; forse non mi hanno visto. Ma mi abbandono ormai al mio destino: sono sprovvisto di ogni cosa, confinato nell’angolo più povero dell’isola, tra pantani che il mare sopprime una volta alla settimana.