Recensione di “A un cerbiatto somiglia il mio amore” di David Grossman
Si riflettono nelle ansie di una madre i travagli di un popolo, i traumi di una nazione, le ferite aperte di una comunità attraversata da guerre continue, conflitti feroci, isolati e disperati gesti di vendetta. Riverberano nell’anima fertile di una donna, nella sua ostinata volontà di vita, il fragore delle esplosioni, il rantolo dei moribondi, le urla agghiaccianti dei torturati e l’inumana determinazione degli aguzzini.
Ed è attraverso gli occhi di una donna (e il cuore di una madre) che David Grossman, nel suo intensissimo romanzo intitolato A un cerbiatto somiglia il mio amore racconta la storia di dolore, persecuzione e colpa della sua terra, Israele. Una storia che prende avvio con la Guerra dei Sei Giorni, e con tre ragazzi di sedici anni, Avram, Orah e Ilan, ricoverati in un piccolo ospedale di Gerusalemme.
Grossman narra quasi con fatica, la sua prosa è nervosa, mutilata nelle frasi, confusa, stupefatta, lontana da quel che accade, incapace di decifrare la realtà, ma questa ardita (e assai felice) scelta stilistica altro non è che una limpida dichiarazione d’intenti: l’autore, da sempre impegnato a favore di una soluzione pacifica della questione arabo-israeliana, non si rifugia in una sterile neutralità letteraria e dà al romanzo un preciso indirizzo etico-politico. Così, l’insopprimibile presenza della guerra e la sua tragica centralità vengono relegate a rumore di fondo, ridotte a scampoli di coscienza sospesi tra sonno e veglia, ad attimi di lucidità nel sopore liquido della malattia; e mentre le armi crepitano, e a ogni colpo di cannone, a ogni esplosione, i muri dell’ospedale tremano, i tre ragazzi imparano a conoscersi, diventano amici, si legano così strettamente tra loro da diventare indispensabili gli uni agli altri; in una parola, vivono, proprio quando tutto intorno a loro muore.
Sopravvissuti al conflitto, salvati dall’amore reciproco e nello stesso tempo lacerati dall’intensità di quel sentimento, a distanza di anni da quell’esperienza Orah, Avram e Ilan sembrano possedere soltanto il ricordo di ciò che è stato; Orah ha sposato Ilan, ha avuto due figli e ha divorziato, Avram ha conosciuto le atrocità della prigionia e porta chiusa in sé una sofferenza impossibile da esprimere a parole, un patimento che nessun essere umano dovrebbe mai sperimentare. Orah ha organizzato un viaggio, intende partire con uno dei suoi figli, Ofer, che sta svolgendo il servizio militare ma è ormai prossimo al congedo. Orah attende che Ofer torni a casa sano e salvo, che si consumi, finalmente, il tempo sospeso dell’attesa, un gelido nodo scorsoio fatto di giorni e settimane e mesi trascorsi ad aspettare e scongiurare l’arrivo della peggiore delle notizie, quella della morte del proprio figlio, “ucciso dal nemico”. Ma il travaglio di Orah è destinato a non avere fine perché Ofer decide di prendere parte a un’incursione in Cisgiordania, una missione dalla quale potrebbe non tornare.
La consapevolezza di non poter resistere oltre in quella situazione spinge Orah a partire ugualmente, a sottrarsi, con gli unici mezzi che a disposizione (la speranza, l’allontanamento fisico da casa, dove i militari incaricati di informarla della morte di Ofer sarebbero andati a cercarla, svegliandola in piena notte, come prescrive il protocollo dell’esercito israeliano), a un destino che sente incombere come una maledizione; assieme a lei, in un viaggio che segnerà un possibile nuovo inizio, l’amico di vecchia data Avram, il giovane conosciuto e amato. Forse troppo, forse non abbastanza. Avram che dalla guerra era rimasto orribilmente sfregiato, che aveva sopportato così tanto e così a lungo da costringersi a dimenticare, a cancellare tutto per non morire, e che una volta libero, in ospedale, con intorno medici e infermieri impegnati a curare quel che restava del suo corpo aveva chiesto con un filo di voce: “Israele… esiste?”. Avram, che fin dal primo momento aveva amato Orah più di quanto lei avesse mai amato lui e Ilan, e che a Orah aveva donato tutto se stesso, aveva donato Ofer.
A un cerbiatto somiglia il mio amore è un romanzo fragile e potente, è una riflessione coraggiosa sull’uomo, sulla nobiltà dei suoi sentimenti e sulle tenebre che abita, è la testarda ricerca di un significato, di un perché, di una ragione che sia argine al caos del mondo, alla crudele insensatezza delle cose. La scrittura di Grossman (ottima la traduzione di Alessandra Shomroni) è ricca, bellissima, viva e colma di speranza come gli scenari naturali che descrive, ed è cupa e priva di luce come un’anima amputata. È giorno e notte.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
Ehi, tu, sta’ zitta!Chi è?Sta’ zitta! Hai svegliato tutti!Ma io la tenevo per mano.Che cosa?Sul masso, eravamo sedute e…Ma di che masso parli? Lasciami dormire.A un tratto è caduta.Stavi cantando nel sonno, ti rendi conto?Ma se dormivo.E urlavi!Mi ha lasciato la mano, è caduta.Basta, dormi.Accendi la luce.Sei impazzita?Ho dimenticato…Ci uccideranno se accendiamo la luce.Aspetta…Che c’è?Cantavo?Cantavi, urlavi, tutto insieme. Adesso sta’ zitta.Cosa cantavo?Cosa cantavi!?Mentre dormivo, cosa cantavo?E che ne so io? Urlavi. Ecco cosa cantavi. Cosa cantavo, cosa cantavo…Ma tu hai detto che cantavo.Era una canzone senza… non lo so. Basta, io…Non te la ricordi?Ma se sono più morto che vivo…Ma chi sei?Stanza numero tre.Anche tu in quarantena?Devo tornare in camera.Non andare… Te ne sei andato? Ehi, aspetta… Se n’è andato… Ma cosa cantavo?