Recensione di “Traditori di tutti” di Giorgio Scerbanenco
Chiave d’accesso a una vicenda tanto intricata quanto sordida, il duplice omicidio con cui si apre Traditori di tutti di Giorgio Scerbanenco (pubblicato nel 1966 e insignito, due anni più tardi, del prestigioso Grand Prix de Littérature policière) è la rappresentazione – la più terribile e insieme la più vera – del disfacimento morale di una società.
In una Milano traboccante d’orgoglio, che respira industrializzazione e modernità e nel fumo nero vomitato dalle ciminiere soffoca senza neppure accorgersene; che nel febbrile, selvaggio contagio dell’opulenza (da conquistare a tutti i costi, da ostentare) si corrompe e imputridisce come carne morta, Scerbanenco dà vita a un giallo magistrale, cupo nei toni, appassionante nell’intreccio, e racconta di un’indagine tormentata e complessa, che nella sua testarda ricerca della verità svela un’urgenza di giustizia che è ansia d’assoluto.
Protagonista del romanzo, ancora una volta dopo l’esordio in Venere privata (di cui ho già scritto in questo blog), Duca Lamberti, medico di professione anche se radiato dall’albo (forse per troppa pietà, forse per coerenza, più probabilmente per entrambe le cose, monete scomode e fuori corso in una realtà dove imperano compromessi al ribasso e viltà, e dove il solo interesse che si persegue è quello personale) e poliziotto per vocazione.
Tocca a lui cercare di far luce su quelle due morti misteriose, un uomo e una donna non più giovani finiti nel naviglio con la loro macchina e annegati come topi, perché una delle due persone uccise Duca la conosce bene – anche se desidererebbe con tutto se stesso non averla mai incontrata – e soprattutto perché quel che gli è accaduto ha troppe somiglianze con un altro tragico fatto avvenuto anni prima, la morte di un giovane, amico della vittima, e della sua ragazza, inghiottiti dal Lambro (erano anch’essi in macchina, una macchina che il ragazzo aveva avuto in prestito proprio dalla vittima, e che non sapeva guidare). E Duca indaga, spinto dal suo bisogno di restituire ordine e comprensibilità a un mondo perduto scava sempre più a fondo, e alla fine si ritrova alle prese con spietate organizzazioni criminali, trafficanti decisi a tutto pur di portare a termine i propri affari, squallidi (ma non per questo meno pericolosi) mercanti di carne e di sesso.
A tu per tu con i “traditori di tutti” – criminali, bestie, feccia perché senza morale, non perché senza legge – Duca Lamberti si batte con tutte le sue forze per qualcosa di ben più importante della legalità; per lui, infatti, e forse soltanto per lui, quel che c’è in gioco nel lavoro del poliziotto non è l’ordine pubblico ma la difesa, strenua, di un’etica nella quale la collettività possa riconoscersi, e vivere con dignità. Guarda alla società quest’uomo tenace e solitario, pieno di compassione e di rabbia, alla sua salvezza e alla sua distruzione, estremi che ogni giorno di più, nella Milano che frenetica si fa metropoli, rischiano di toccarsi.
Come scrive Carlo Oliva nella prefazione all’edizione Garzanti del romanzo, “Duca Lamberti è un duro, ma come tutti i duri della letteratura noir, non è alieno da qualche contraddizione. Anche se non ha la fedina penale perfettamente in regola, è votato alla causa della giustizia e quindi odia i delinquenti, quelli che proprio non vogliono attenersi alle regole della convivenza civile, e manifesta nei loro confronti le intenzioni meno rassicuranti, ma non riesce a combatterli, come vorrebbe, con le loro stesse armi. Magari gli capiterà di mollare qualche sganassone, di sottoporre qualche indiziato a pressioni non del tutto convenzionali: succede in questo romanzo al gestore della Binaschina, il brutto ristorante vicino alla Certosa di Pavia in cui si intrecciano volgari commerci carnali e loschi traffici di portata internazionale. Ma i lettori vedranno che la sua è una violenza molto esteriore, sotto la quale si cela un sano, tradizionale, rispetto per i diritti civili di tutti, ‘traditori di tutti’ compresi”.
Con ogni probabilità Traditori di tutti è il miglior romanzo di Scerbanenco; lo è nel meccanismo narrativo, nel disegno dei personaggi, nell’evoluzione di Duca Lamberti (che diventa a tutti gli effetti poliziotto), nella chiarezza lacerante della sua denuncia, nella dichiarata volontà di non arrendersi, di non cedere, malgrado tutto, malgrado tutti. È un libro scritto magnificamente (perché Giorgio Scerbanenco è un grande autore), un libro bello e prezioso, il cui valore letterario coincide con quello etico.
Eccovi l’incipit. Buona Lettura.
Quando venne la televisione, il primo a metterla fu il mio fidanzato, il macellaio, tutta Ca’ Tarino voleva andare a casa sua a vederla, ma lui sceglieva, invitava i miei genitori, così andavo anch’io e così ci siamo fidanzati, al buio lui mi metteva una mano sulle ginocchia, poi saliva su, e appena ha potuto mi ha chiesto se ero vergine, io con quella mano sulle gambe e mia madre vicina m’infastidivo e gli ho risposto di sì, per prenderlo in giro: ero stata proprio ad aspettare lui.
È difficile uccidere due persone contemporaneamente, ma lei fermò l’auto al punto esatto, studiato più volte, quasi al centimetro, anche di notte, riconoscibile per il curioso, gotico e eiffeliano ponticello in ferro che scavalcava il canale e disse, fermando appunto l’auto nel centimetro quadrato voluto come una freccia si ferma quando centra nel centro del bersaglio: «Scendo a fumare una sigaretta, non mi piace fumare in macchina,» lo disse ai due seduti dietro, che erano i due che doveva uccidere, e scese senza attendere risposta, anche se quelli, gentilmente, intorpiditi dal grosso pranzo e anche dall’età, rocamente dissero sì, che scendesse pure, e liberi dalla sua presenza si disposero quasi a dormire meglio, vecchiotti e grassotti com’erano, tutti e due in impermeabile bianco, lei con la sciarpa di lana intorno al collo, di un colore avana fegatoso, simile a quello del collo, che la rendeva così più grassa, il viso che richiamava una grossa rana, e un tempo, invece, milioni di anni prima, non era ancora finita la guerra, la seconda guerra mondiale, era stata molto bella – così diceva, e lei, adesso, stava per ucciderla, insieme col suo compagno – qualcuno, ufficialmente, la chiamava Adele Terrini e a Buccinasco, invece, alla Ca’ Tarino, dove era nata e dove sapevano molte cose di lei, la chiamavano Adele la Troia, e suo papà, invece, che era americano e fesso, l’aveva chiamata Adele la Speranza.